
Hallenstadion di Zurigo.
È il 26 dicembre del 1971, una domenica di cinquant’anni fa.
Sono passati nove mesi da quando Muhammad Ali ha perso il primo match da professionista.
Joe Frazier gli ha inflitto l’umiliazione del knock down e ha aperto una cicatrice che fatica a rimarginarsi.
Ali gira il mondo in cerca di avversari da battere, uomini che possano mettere il loro mattone nella ricostruzione dell’esaltazione di quell’ego che l’ex re dei massimi ha visto indebolirsi sul ring del Madison Square Garden.
Jimmy Ellis, un ex sparring partner, e Buster Mathis, ingombrante nei suoi 117 chili di peso, sono stati i primi due rivali a prestarsi per l’operazione recupero. Nella notte di Santo Stefano del ’71 il bastone della staffetta passa nelle mani di Jurgen Blin.
Faceva il macellaio in un’azienda di salumi ad Amburgo, l’avrebbe fatto sino a fine carriera.
Ho letto la sua storia su Facing Ali, uno splendido libro in cui quindici avversari del più grande si raccontano a Stephen Brunt. C’è intensità, emozioni, passione e pugilato in quelle pagine. C’è la vita.
Famiglia numerosa i Blin. Il papà lavorava in proprio. Girava di paese in paese, di fattoria in fattoria. Mungeva le mucche e procurava il latte per il caseificio locale. L’alcolismo non gli permetteva di andare avanti a lungo.
Aveva poco più di dieci anni Jurgen quando, assieme alla mamma e ai fratelli, ereditava il lavoro del papà. A scuola lo chiamavano cacca di mucca. Era per via di quella puzza che si portava costantemente dietro. Un’operazione di bullismo che provocava un profondo senso di solitudine nel ragazzo, depressione sfogata in lunghi pianti, travolto da un senso di oppressione e rabbia.
A quindici anni scappava, andava ad Amburgo. Lavorava come apprendista garzone nella bottega di un macellaio, un padre di famiglia che gli permetteva di dormire nella sua casa. Davanti alla finestra della camera di Jurgen c’era una palestra di pugilato. Dopo mille rinvii, si decideva. Entrava in quel locale, diventava prigioniero di una passione difficile da dimenticare.
Il pugilato l’aveva subito conquistato. Lavoro, allenamenti, cena, a letto a dormire.
Senza un giorno di riposo. Quando faceva il grande passo, e diventava professionista, l’unico lusso che si concedeva era quello di tre/quattro settimane di ferie. Ovviamente non pagate e riempite solo dagli allenamenti.
Prò a diciannove anni, già sposato e padre di tre figli, due dei quali gemelli.
Piccolo di fisico, si presentava sul ring sistematicamente sotto i 90 chili. Pochi per un peso massimo, il giusto per uno alto 1.85. Avesse combattuto oggi sarebbe stato un cruiser.
Non aveva grande potenza di pugno. Ma era un fighter vero. Determinato, coraggioso, pronto a giocarsi ogni possibilità anche contro i più forti.
E chi poteva definirsi migliore del migliore?
Ho visto quel match su un filmato che ripropone ogni secondo della sfida.
Ho visto Jurgen camminare tra due ali di folla, raggiungere il ring avvolto in un accappatoio blu con una sciarpa gialla. Sulla faccia le mille preoccupazioni del momento.
Blin era sempre salito sul quadrato convinto di avere una possibilità di vittoria. Non quella sera. Sapeva che l’altro era più bravo, più grosso, più veloce, più potente, più esperto, sicuramente più carismatico. No, non avrebbe mai potuto batterlo. Eppure aveva accettato la sfida. E non solo per i 45.000 dollari della borsa. Ali prendeva cinque volte tanto, ma anche quella che finiva nelle tasche del tedesco era una bella somma. Blin combatteva anche e soprattutto per l’orgoglio di esserci. E lo faceva spinto dalle motivazioni che l’avevano portato a diventare pugile. La rabbia per quello che aveva dovuto passare da ragazzo, il dolore che l’aveva portato a scappare di casa. E sì, anche la certezza di un buon guadagno che avrebbe contribuito a rendere più sicuro il futuro della famiglia.
Ali era avvolto da un accappatoio rosso con i risvolti bianchi. Aveva già sconfitto Liston, Bugner, Patterson, Chuvalo, Bonavena, Terrell, Quarry, Folley.
Durante i preliminari, prima di un’esecuzione degli inni che sembrava non dovesse mai finire, Bundini Brown lo massaggiava sulle spalle, sorrideva a ogni sua parola, impediva che altri lo toccassero. Solo due uomini potevano farlo. Angelo Dundee, calabrese d’America, da sempre manager del campione. Un uomo che amava definire così il suo mestiere: “A volte devi essere un buon dottore, altre un bravo ingegnere, altre ancora conoscere la psicologia, spesso devi diventare anche attore. E, ovviamente, devi conoscere la boxe. Ci sono più modi di interpretare questo lavoro di quelli che puoi trovare negli inganni del cubo di Rubik.”
L’altro uomo era un giovanissimo Mickey Duff, il promoter che parlava lentamente con un accento inglese acquisito, una voce soffocata che sembrava volesse rientrare da dove era appena uscita. Uno che aveva uno strano rapporto con il mondo. “Se vuoi lealtà, comprati un cane” era il suo motto.
All’angolo di Blin c’erano il manager Henk Ruhling e l’interprete o chissà cosa altro Hans Rudi Jaggi. Sotto l’angolo sedeva Fritz Wienne, un promoter che, data la mole, era impossibile non vedere.
Cento chili al peso per Ali, dieci in meno per Blin.
Per quasi sei riprese Jurgen interpretava bene il suo ruolo. Nei round iniziali provava addirittura a sorprendere il campione. Poi l’altro intensificava il ritmo, le combinazioni si susseguivano e i colpi andavano a segno sempre più numerosi. Il pugno che chiudeva la storia arrivava nel settimo round. Era un diretto destro che centrava in pieno volto il tedesco. Blin appariva come un edificio che si stesse sgretolando dopo l’impatto con una palla di demolizione lanciata a grande velocità. Presa la botta, rimaneva in piedi, poi lentamente precipitava verso il tappeto, cercava nelle corde l’ultimo rifugio, si attaccava, appoggiava, provava a rimettersi in piedi. Tutto inutile.
Finiva lì la grande avventura del macellaio, ex mungitore di mucche, che sarebbe poi diventato campione europeo della categoria. Uno che poteva dire di essere stato sullo stesso ring contro Muhammad Ali.
Il campione se ne è andato per sempre il 3 giugno del 2016, aveva 74 anni.
Jurgen Blin di anni ne ha 78, vive ancora ad Amburgo dove ha comprato alcuni ristoranti. Fortunato negli affari, non lo è stato altrettanto nella vita di famiglia. Uno dei gemelli è stato ricoverato a lungo in una casa di cura per malattie mentali, alla fine si è suicidato lanciandosi dal dodicesimo piano dell’ospedale. Dopo il primo ricovero del ragazzo, l’ex peso massimo ha divorziato dalla moglie. L’altro gemello, dopo un iniziale successo nel commercio, è andato in bancarotta.
Molti demoni si muovono nelle lunghe notti di Jurgen Blin. Incubi in cui a tratti si fa luce una sconfitta per ko contro Muhammad Ali, è catalogata sotto la scritta lampi di orgoglio.