
Non so se ci fosse il sole quella mattina a Omice, 17 chilometri a est di Brno nella Repubblica Ceca. So per certo che una delle 758 abitanti del posto se ne stava in giardino a prendersi cura dei fiori, quando si è sentita chiamare. Si è girata e ha visto una ragazza alta e magra, un viso pieno di speranza, un naso a punta che indicava il futuro.
“Ciao Jana”.
“Ciao, ci conosciamo?”
“Io conosco te”.
“Dimmi”.
“Sono in cerca di un aiuto”.
“Cosa posso fare?”
“Ho 18 anni, ho vinto qualcosa di importante a livello junior. Per fare il salto nel tennis degli adulti ho bisogno di una grande maestra”.
“Vediamoci giovedì al club, prenoto il campo”.
Sono rimaste assieme tre anni. Un rapporto professionale forte, intenso. Jana le insegnava il tennis e la vita.
Veloce la gioia, lungo e straziante il dolore.
Il 19 novembre del 2017 il cancro si portava via per sempre la Novotna, lasciando alla giovane allieva tanta tristezza e sette parole di speranza.
“Divertiti e prova a vincere uno Slam”.
Il tennis Barbora Krejcikova l’aveva scoperto che era bambina. Nella cucina di casa, a Brno. Era lì che assieme alla mamma guardava la tv. A otto anni, stupita, aveva ammirato la prima eroina. Piccola e fragile agli occhi di chi non la conosceva, Justine Henin in campo si trasformava in un gigante e vinceva il Roland Garros. Quando sabato 12 giugno Barbora se l’è vista davanti, per un attimo ha pensato non fosse vera, poi si è arresa.
“È un mito che esiste in carne e ossa, e conosce addirittura il mio nome”.
Questa è una storia con un epilogo degno di Cenerentola. La felicità però me la sono sempre immaginata in modo diverso.
Se arrivi al Roland Garros senza essere testa di serie e di Slam in singolare ne hai giocati appena quattro e poi alzi la Coppa al cielo, dovresti esplodere di gioia. Barbora, dopo il punto della vittoria, ha mostrato il pugnetto, alzato le braccia per non più di cinque secondi e si è chiusa in una malinconia da spezzare il cuore. Forse aveva paura di sorridere, temeva che se lo avesse fatto, non sarebbe più riuscita a trattenere le lacrime. Alla fine ha ceduto e un bacio è voltato in alto, ben sopra il Centrale del Roland Garros.
“Spero che lei sia felice” ha sussurrato.
Aveva appena sconfitto Anastasia Pavlyuchenkova e cercava di tenere lontane memorie ingombranti. Alzava ancora una volta la mano destra verso il cielo, così Jana era più vicina. L’aveva cercata altre volte in queste due settimane. Era esplosa in un pianto nervoso prima di affrontare Stephens e Sakkari. La psicologa le aveva dato una mano ricordandole il mantra che proprio la Novotna le aveva affidato.
“Divertiti”.
A quello si era aggrappata mentre giocava contro i cinque set point di Coco Gauff nei quarti, il match point annullato e i tre falliti contro Maria Sakkari in semifinale. Si è arrampicata per salite insidiose, ha attraversato il deserto dei dubbi e alla fine è arrivata alla meta per scoprire che era tutto vero, reale. Non un miraggio, ma la Coppa Suzanne Lenglen.
Appena un anno fa giocava il primo Roland Garros e non era tra le Top 100. Adesso, fuori dalla lista delle favorite, fuori dalle teste di serie, lontana dai nomi che catturano i titoloni dei giornali, ha vinto.
Alla fine le lacrime sono arrivate. Jana è stata celebrata.
Barbora è una Cenerentola che non ha mai incontrato la strega cattiva. Sul suo cammino per tre anni ha avuto una compagna di viaggio che l’ha spinta sul giusto sentiero. Lascia Parigi con il primo successo in uno Slam, il secondo torneo della carriera. L’altro l’ha vinto a Strasburgo una settimana prima.
“Barbora Krejcikova è una supernova, la giocatrice di un piccolo club di provincia della Repubblica Ceca, il trionfo della normalità in un circuito dove tutti cercano di distinguersi” Sophie Dorgan, l’Équipe.
Un altro giornalista ha subito visto le qualità di questa ragazza. Christopher Clarey ne ha scritto lo scorso anno sul New York Times. È leggendo quell’articolo che ho scoperto l’intensità del rapporto sportivo e umano con Jana Novotna.
Quando ho visto Barbora impegnata nella più veloce celebrazione di un trionfo a cui abbia amai assistito in cinquant’anni di professione, mi sono convinto che la sua fosse davvero una storia da raccontare.