È l’11 giugno del 1982, trentanove anni fa. Larry Holmes affronta Gerry Cooney al Caesars Palace di Las Vegas per il mondiale Wbc dei pesi massimi. Arbitra Mills Lane. Trentamila spettatori per un incasso al botteghino di oltre sette milioni di dollari.
“Mio padre mi ha insegnato cinque cose: tu non sei buono, sei un fallimento, non sarai mai nessuno, non fidarti di nessuno e non rivelare a nessuno il tuo business.”
La famiglia Cooney vive a Long Island, ha origini irlandesi ed è cattolica. In quella casa Gerry non si sente certo protetto dall’affetto del papà. Eppure è stato proprio lui a spingerlo in palestra, è lui a svegliarlo ogni mattina all’alba per costringerlo a correre. Dedito all’alcool e con uno sfortunato passato da aspirante pugile il signor Cooney è una presenza inquietante nella vita del giovane figliolo.
“Vivo nella paura” confessa Gerry a un amico.
Nel 1976 il papà muore di cancro.
Gerald “Gerry” Cooney è ormai un pugile e dopo una discreta carriera da dilettante decide di tentare l’avventura nel professionismo.
E’ alto 196 centimetri, è grosso, è un peso massimo per stazza e potenza di pugno. Il sinistro, soprattutto quando è portato in gancio, provoca seri danni. Va avanti vittoria dopo vittoria sino ad arrivare all’11 maggio 1981 quando sale sul ring del Madison Square Garden per affrontare Ken Norton.
Il match dura soltanto 54”. L’ex campione del mondo è travolto dai colpi dell’irlandese e rischia addirittura qualcosa più della sconfitta per colpa di un tardivo intervento dell’arbitro.
Don King vuole mettere su la sfida per il titolo Wbc contro il detentore Larry Holmes. I due manager di Cooney innescano una corsa al rialzo prima di firmare il contratto. Dennis Rappaport e Mike Jones chiudono l’accordo per una borsa record di dieci milioni di dollari, la stessa che intascherà Holmes. Si attende solo la data della sfida.
Nell’attesa, Cooney non combatte. I suoi manager temono di rovinare l’affare nel caso si verifichi un incidente di percorso.
Holmes difende il titolo contro Berbick, Leon Spinks e Snipes.
Don King annuncia il mondiale per il 15 marzo 1982. Cooney subisce un leggero infortunio alla schiena. La sfida viene rinviata all’11 giugno.
È a questo punto che comincia la nostra storia.
Non si parla più di sport, ma di scontro razziale.
Don King definisce Gerry la “Grande Speranza Bianca”.
“Lui è bianco, è irlandese, è cattolico. L’altro è nero. Non ho bisogno di aggiungere altro.”
Dennis Rappaport guida il gruppo dello sfidante.
“Non rispetto Holmes nè come uomo, nè come pugile: non è degno di essere campione del mondo.”
Sono ventitrè anni che un pugile di origini caucasiche non sale sul trono dei massimi, l’ultimo è stato lo svedese Ingemar Johansson che il 26 giugno del 1959 ha sconfitto Floyd Patterson per kot 3 allo Yankee Stadium.
Don King e Rappaport esagerano. Lo scontro verbale diventa quasi una rissa.
Un gruppo di razzisti afferma di avere agenti pronti a sparare contro Holmes quando salirà sul ring.
I supporter afroamericani rispondono sullo stesso tono. Sono pronti a replicare anche con le armi.
Il mondiale si svolge nel parcheggio all’aperto del Caesars Palace di Las Vegas.
La polizia posiziona decine di tiratori scelti sui tetti di tutti i grandi alberghi che circondano l’arena.
I servizi segreti entrano nello spogliatoio del gigante irlandese e fanno installare un telefono “pulito”, non controllato. Mezzora prima del match il telefono suona, all’altro capo del filo c’è Ronald Reagan, il presidente degli Stati Uniti d’America.
“Gerry riporta a casa il mondiale dei massimi.”
Nel camerino del campione c’è solo il silenzio.
«Cooney mi ha sempre trattato come se fossi immondizia. È incapace di tirare fuori il buono che c’è nella gente, è bravo solo a esaltare la cattiveria che c’è nei bianchi. Se ne sta al Caesars Palace e non vuole che nessuno passi per il suo piano quando è in stanza. Quelli dell’albergo l’hanno accontentato. Con me non l’hanno mai fatto, eppure io lì ho combattuto dieci volte. Sono tutti con lui, contro di me.»
In platea ci sono decine di personaggi famosi: Joe Di Maggio, Fara Fawcett, Ryan O’Neal, Jack Nicholson, Wayne Gretzky. Contro ogni tradizione il primo dei pugili ad essere annunciato è il campione. È imbattuto dopo 39 match, anche lo sfidante ha vinto tutti e 25 i match disputati. L’arbitro è Mills Lane. I due si toccano i guantoni al centro del ring, a parlare è solo il campione.
“Buon combattimento.”
Si comincia.
Nel secondo round un perfetto uno/due chiuso da un potente diretto destro mette al tappeto Cooney che prima di andare giù barcolla sulle gambe, prova a tenersi alle corde, insegue un equilibrio che non c’è.
Nell’intervallo all’angolo cercano di scuoterlo, di restituirgli fiducia in se stesso. Danny Rappaport gli urla in faccia.
“L’America ha bisogno di te!”
Nel quarto un gancio sinistro al corpo doppiato da un destro fa traballare Holmes che viene salvato dal gong. Va all’angolo, è malfermo sulle gambe.
Dal quinto all’ottavo la sfida è combattuta, ma si muove su un piano di sostanziale equilibrio.
Poi ha inizio il forcing del campione. Gerry non ha l’esperienza per tirarsi fuori da quella situazione con il minimo danno.
Nel decimo Cooney colpisce per tre volte sotto la cintura, nell’ultima raggiunge il rivale con un terribile montante.
“Ho continuato a sentire il dolore per oltre vent’anni, ogni volta che ci penso mi sento male” dice ancora oggi sorridendo Larry. L’arbitro punisce il comportamento scorretto con tre punti di penalizzazione.
Cooney è ferito sotto l’occhio sinistro ed è in evidente affanno.
Nel tredicesimo Holmes tortura il rivale. Un cross destro stretto, un sinistro devastante. Cooney barcolla, si appoggia alle corde, aspetta l’ultima stoccata. Victor Valle, il suo maestro, lancia l’asciugamano e salta sul ring. Il mondiale è finito.
Cinque persone si suicidano per quella sconfitta. Nel Mississippi alcuni bianchi sparano e uccidono dei neri. A Kansas City ci sono tumulti, i neri vengono picchiati nelle strade. La casa di Larry, a Easton, viene imbrattata con scritte razziali, la buca della posta è piena di lettere con minacce di morte. Non è stato solo un match di boxe quello che il campione ha appena vinto.
Gerry Cooney va in depressione, disputa altri cinque match e poi si ritira. Cade nell’alcolismo, va in un centro di recupero e ne esce guarito. L’ultimo bicchiere lo ha bevuto una vita fa, il 21 aprile del 1988.
I due sono diventati amici. Larry Holmes è un ricco industriale che ha combattuto fino a 53 anni. Sta bene, frequenta ancora il pugilato ed è pieno di soldi. Spesso lo si può vedere nelle serate organizzate per beneficienza dal vecchio rivale.
Gerry Cooney vive a Fanwood, New Jersey con la moglie Jennifer e due dei tre figli: Jackson (di 18 anni) e Sara (14). L’altro, Chris (27), abita a New York. Il colosso di origini irlandesi ha un programma radiofonico settimanale in cui parla di boxe. È impegnato in due associazioni. La prima tutela i pugili dopo il ritiro, l’altra si occupa della lotta alla violenza domestica.
Sono passati trentasei anni da quella notte a Las Vegas, ma se vi capitasse di chiedere a Gerry Cooney un commento di quel mondiale vi sentireste rispondere sempre allo stesso modo.
“Mio padre mi ha insegnato cinque cose: tu non sei buono, sei un fallimento, non sarai mai nessuno, non fidarti di nessuno e non rivelare a nessuno il tuo business. Quella notte ho pensato che avesse ragione.“
(da “Non fare il furbo, combatti” di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)