Si chiamava Rubin Carter, per tutti era Hurricane. Questa è la sua storia…

Immagine

Stavo curiosando nel mio archivio, 
ho trovato questa storia. 
L’ho scritta sette anni fa.


Quando Rubin Carter, detto Hurricane, è morto il 20 aprile del 2014, a dare la notizia è stato James Artis.
L’uomo che era stato accusato, assieme a lui, di triplice omicidio.
Rubin aveva 76 anni.
La tragedia che non hanno mai dimenticato è datata 17 giugno 1966.

Sono le 2:40 del mattino. Il Lafayette Bar and Grill è sulla East 18th Street di Paterson, New Jersey. All’interno quattro persone si fanno compagnia in attesa della chiusura. È stata una giornata carica di tensione. Nel pomeriggio Frank Conforti, un bianco, ha ucciso con un colpo di pistola Leroy Holloway, il proprietario di un bar. Un afro americano. Nell’aria c’è una forte carica di rabbia razzista.
Il bar è a Riverside, una zona a prevalenza bianca.
Due neri entrano (freccia A nella foto sotto) sbattendo la porta. Il più piccolo imbraccia una doppietta, l’altro ha in mano un revolver calibro .32.
James Oliver (numero 4), 51 anni, li vede. È il barista, ha una quota nella gestione del locale. Sta contando i soldi dell’incasso. Lascia cadere le banconote che volano lentamente nell’aria, poi scivolano a terra. James afferra una bottiglia vuota di birra e la lancia sbilenca verso i due uomini. Manca il bersaglio, lil vetro si frantuma contro il condizionatore d’aria. Il barista prova a scappare, non fa neppure due passi che un proiettile lo raggiunge alla parte bassa della schiena trapassando il midollo spinale. Cade a terra dietro il bancone. Morto.
L’uomo con il revolver spara un colpo che centra Fred “Cedar Grove Bob” Nauyoks (numero 3), 60 anni, alla testa. Si gira e colpisce William Marins (numero 2), 42 anni, alla tempia sinistra. Il proiettile passa la cavità orbitale rendendo immediatamente cieco l’occhio sinistro. Nauyoks cada a faccia in avanti sul bancone. Sembra stia dormendo. È invece morto sul colpo, il braccio sinistro oltre il bar, la sigaretta ancora accesa fra le dita della mano destra.
Marins è cieco da un occhio e ha il cranio fracassato, attraversa il bar barcollando e finisce a terra. Si finge morto. I due neri stanno per scappare quando si accorgono della donna. Hazel Tanis (numero 1), 51 anni, la cameriera che ha da poco finito il turno di lavoro. Si era fermata per bere qualcosa e scambiare due parole con il suo amico Oliver. È seduta d’angolo, in fondo al bar. Si accorge di essere stata scoperta e comincia a urlare. I due neri fanno fuoco. Cinque proiettili calibro .32 la centrano alla gola, stomaco, intestino, milza e polmone sinistro. Ha il braccio frantumato dai pallini da caccia sparati dalla doppietta. Cade a terra.
I due neri escono sulla East 18th Street, arrivati all’angolo con Lafayette girano a destra dove hanno parcheggiato una Dodge bianca. Gridano e ridono. A meno di venti metri da loro c’è Alfred Bello, bianco, criminale di lungo corso. Bello scappa, aspetta che i due salgano in macchina e filino via. Poi torna indietro, entra nel bar. Apre la cassa, ruba sessantadue dollari che dà all’amico Arthur Bradley che lo sta aspettando fuori. Solo dopo rientra nel bar e chiama la polizia.
Hazel Tanis morirà in ospedale un mese dopo.
Questa la scena del triplo omicidio in base alla ricostruzione fatta dalla polizia e pubblicata nel 1975 da The Herald-News.

Immagine

Per questi tre delitti vengonoaccusati due neri: James Artis e Rubin Carter (nella foto sotto The Morning News pubblica la notizia).
Il primo processo è affidato a una giuria tutta bianca, bianco è anche il procuratore. I due vengono condannati all’ergastolo.
La Corte Suprema ribalta il verdetto, Artis e Carter vengono messi in libertà sotto cauzione.
Il secondo processo li condanna nuovamente.
La US District Court presieduta dal giudice H. Lee Sarokin rimette in libertà Artis e Carter perché l’ultimo verdetto, a suo parere, era “fondato sul razzismo piuttosto che sulla ragione, sull’accanimento piuttosto che sull’accertamento della verità.

Immagine

Rubin Carter esce di prigione e si trasferisce in Canada, a Toronto.
È lui il protagonista di questa vicenda. Buon peso medio, soprannominato Hurricane per il modo aggressivo e furioso di stare sul ring.
Arriva a giocarsi il mondiale contro Joey Giardiello nel momento di massimo splendore, il 1964.
Perde ai punti il match valido per il titolo unificato dei medi disputato alla Convention Hall di Filadelfia.
Un anno prima aveva sconfitto per kot nel round iniziale Emile Griffith.

Quando scoppia il caso del triplice omicidio, quando i processi lasciano dei dubbi nelle coscienti dei liberal americani, una forte campagna di solidarietà si diffonde per tutti gli stati. Al suo fianco si schiera anche Muhammad Ali.
Bob Dylan (foto sotto incontra Carter in prigione) gli dedica una canzone piena di potenza e poesia.

Colpi di pistola risuonano nel bar notturno
entra Patty Valentine dal ballatoio
vede il barista in una pozza di sangue
grida “Mio Dio! Li hanno uccisi tutti!”
Ecco la storia di “Hurricane”
l’uomo che le autorità incolparono
per qualcosa che non aveva mai fatto
lo misero in prigione ma un tempo
egli sarebbe potuto diventare
il campione del mondo

 

Immagine

 

Nel 1999 girano un film su questa storia. Denzel Washington interpreta il ruolo di Rubin Carter e si guadagna una nomination all’Oscar del 2000 come attore protagonista. Gran parte dell’opinione pubblica si schiera al fianco dell’ex pugile, il World Boxing Council gli dona una cintura da campione del mondo, due università negli States e in Australia gli conferiscono la laurea in legge honoris causa. Poi, pian piano Hurricane scivola via dalle prime pagine, dai racconti dei vecchi attorno a una bottiglia di whiskey, dalle chiacchiere di ex pugili, dalle discussioni tra uomini della mala.

Rubin 'Hurricane' Carter, left, fighting Gomeo Brennan in New York in 1963.

Gli ultimi anni della sua vita li trascorre a Toronto, lavorando per un’associazione benefica a favore delle persone condannate ingiustamente.
Per lungo tempo è alle prese con il caso di David McCallum, da trent’anni in carcere per sequestro di persona e omicidio. L’analisi del Dna avrebbe dimostrato che il sangue e ogni altra traccia di presenza umana sul luogo del delitto non appartengono al condannato. Per far sentire la sua voce, Carter aveva scritto una lettera al Daily News. 
Il fantasma di Hurricane faceva la sua ricomparsa in pubblico. Non era più quello che avevamo imparato a conoscere.

Immagine

Al meglio della forma Rubin Carter pesava 72 chili e mezzo. In que giorni, come ha rivelato il quotidiano di New York, faticava ad arrivare a 40.
Nel giugno del 2011 gli era stato diagnosticato un cancro alla prostata, i dottori gli avevano dato da 90 giorni ai sei mesi come aspettativa di vita.
Ridotto l’ombra di se stesso, aveva continuato a lavorare. Non lasciava mai la casa di Toronto dove scriveva appelli, lettere, richieste d’aiuto. Gli erano accanto due sole persone.
James Artis, l’altro uomo finito in galera per l’omicidio di Paterson, e Fred Hogan. Un detective a riposo, l’investigatore che era riuscito a ottenere la ritrattazione dai due testimoni chiave nella causa contro i due imputati per il triplice assassinio del bar.
Rubin aveva 76 anni e ammetteva di “essere stato un uomo con un passato difficile, non sono mai stato un santo”, ma giurava di “non avere mai ucciso nessuno.
Uomo morto che cammina. Così chiamano gli inquilini del braccio della morte. Secondo i medici Hurricane avrebbe dovuto lasciarci, nella più ottimistica delle previsioni, nel dicembre del 2011. Ha lottato fino al 20 aprile del 2014, poi è stato costretto ad arrendersi.
Ho una missione da portare a termine, dare giustizia a David McCallum. Poi me ne andrò in pace” amava ripetere.
Non so cosa sia accaduto quella notte di giugno del 1966 all’interno di un bar di Paterson. In quel locale, costruito in una strada piatta e senza gioia, in quella città dove vento e polvere ti fanno compagnia. Lì sono state uccise tre persone. Due testimoni hanno mentito, due uomini sono stati condannati e poi assolti, persone di legge non hanno fatto bene il loro lavoro accecati da un insano razzismo. Tutti hanno contribuito a lasciare intatto il mistero.
Un giudice ha detto che le condanne erano dettate più dal razzismo che dalla ragione. Chi sono io per dubitare di un magistrato?
Rubin Hurricane Carter ha lottato come aveva sempre fatto nella sua vita. Contro il cancro. Contro le ingiustizie, non della legge ma degli uomini. Aveva ormai superato anche quel 16° round che ha dato il titolo alla sua autobiografia (“Da sfidante numero 1 a numero 45472”, il sottotilo).
Era in overtime, ma continuava a battersi contro un avversario spietato e potente come il cancro. Aveva una missione da compiere ed era convinto che prima di cedere sarebbe riuscito ancora una volta ad alzare le braccia in segno di vittoria.
Non ce l’ha fatta.

 


2 pensieri su “Si chiamava Rubin Carter, per tutti era Hurricane. Questa è la sua storia…

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...