Benny Briscoe. Lo chiamavano Il Cattivo, ha fatto tremare anche Monzon

Copia di Monzon soffre

Benny Briscoe era per tutti “Bad”, il Cattivo. Sul ring era il diavolo, il peccato. Chiunque salisse a battersi con lui sapeva che sarebbe andato incontro a pene da scontare, riprese in cui soffrire.
Cranio rasato, fisico compatto, nessun timore. Si muoveva sempre allo stesso modo, chiunque avesse davanti. Avanzava a piccoli passi, quasi saltellando, e cercava il modo migliore per picchiare. Non si preoccupava di sapere chi fosse il nemico di quella notte.
Erano anni di grande intensità per la boxe, i pugili combattevano spesso, senza grande preavviso e non rifiutavano mai un avversario. Meno categorie, meno titoli a disposizione, più spettacolo. Gli eroi di quell’epoca erano sempre pronti a dare battaglia. E questo, Briscoe sapeva farlo proprio bene. Era felice di dare battaglia.
Era un incubo per gli avversari, una sorta di robot che pressava fino a quando il rivale non si trovava con le spalle alle corde e il nemico che lo guardava fisso negli occhi. Imprigionato, senza possibilità di fuga.
Piccoli oscillamenti del tronco, testa e busto leggermente in avanti, occhi fissi sulla preda. Poi il problema si riduceva a trovare lo spazio per mettere le mani. E quando arrivava a segno, il nemico, chiunque fosse, malediceva il momento in cui aveva accettato quel match. Il dolore saliva veloce al cervello e faceva abbassare la guardia. E lui colpiva, colpiva, continuava a colpire.
Sembrava godesse nel leggere sul volto del rivale la paura, lo smarrimento. Un terzo degli avversari aveva dovuto prendersi un lungo periodo di riposo prima di tornare a combattere, dieci di loro erano stati addirittura costretti a ritirarsi dopo avere assaggiato la potenza di quei colpi.
«Ogni pugile che ho colpito si è dovuto arrendere e se non l’ha fatto è rimasto segnato per il resto della vita».

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Monzon interpretava la boxe sulla stessa lunghezza d’onda. Cercava la distruzione del rivale, per lui non c’era altro modo di concepire un match.
«L’unica emozione che provo sul ring è l’odio per il mio avversario».
Carlos aveva rispetto per Benny Briscoe.
«È uno tosto. Ti fa lavorare. Negli Stati Uniti i pugili legano, ti impediscono di boxare. A me piace boxare da fuori, ho le braccia lunghe. Anche Emile Griffith era bravo, conosceva tutti i trucchi. Ma Benny Briscoe è un duro, uno che ti fa soffrire».
Si erano già affrontati una volta, cinque anni prima a Buenos Aires, ed era finita in parità dopo dieci riprese piene d’azione. Due giudici non avevano visto un vincitore (198-198, all’epoca il punteggio massimo per round era 20), il terzo aveva assegnato il match all’argentino (198-197). Alcuni testimoni oculari però, anche tra I giornalisti sudamericani, giuravano che quell’incontro avrebbe dovuto essere assegnato all’americano (quattro riprese per lui, due per Carlos e quattro pari) che, nel sesto round, aveva anche messo seriamente in difficoltà il rivale. Per l’uomo di Filadelfia era stato un verdetto che suonava decisamente falso, un regalo fatto dall’Argentina a un figlio che si stava facendo volere bene.
Adesso si ritrovavano di fronte. Stesso ring, quello del Luna Park. Benny “Bad” Briscoe stava venendo ancora una volta in casa del nemico per prendersi quello che, pensava, gli appartenesse di diritto. Arrivava da Filadelfia, la patria del pugilato. Un peso medio capace di battersi in quella città era già garanzia di valori alti, assoluti.

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Briscoe era nato ad Atlanta, in Georgia, ma viveva da sempre a Filadelfia. Lavorava otto ore al giorno per il Comune. Prima era stato impegnato nella derattizzazione, poi nella raccolta dei rifiuti.
Benny, come li uccidevi i topi? Col veleno?
«Li chiudevamo in una stanza, poi andavamo a cacciarli con una mazza da baseball e li schiacciavamo».
E questo era un po’ quello che cercava di fare anche con gli avversari. Li chiudeva in un angolo del ring e poi tirava randellate fino a quando quelli non andavano giù.
Combatteva al piccolo Blue Horizon. Una caverna spoglia e piena di fumo che raccoglieva al massimo millecinquecento spettatori. Gente tosta, che sapeva cosa fosse un match di boxe. Dalle balconate sopra il ring potevano allungarsi fino a quasi a toccare con le mani i pugili.
Lì, il 30 settembre del 1969 Benny aveva fatto il tutto esaurito, 1606 persone pigiate in un’arena che poteva ospitare solo 1300 spettatori. Aveva messo ko Tito Marshall al primo round, aveva raccolto l’applauso dei tifosi e aveva subito cominciato a prepararsi per la prossima battaglia.
Cresciuto di livello, Briscoe era poi passato ad esibirsi allo Spectrum. L’arena al coperto all’epoca del secondo match con Monzon, non era ancora stata celebrata da Sylvester “Rocky” Stallone. Ma aveva già ospitato grandi eventi e poteva contare su una capacità di oltre 17.000 posti a sedere. Un grande impianto, degno dei campioni più forti. Benny Bad Briscoe affrontava tutti e vinceva spesso.
Sui pantaloncini portava la stella di David. Dicevano che lo facesse perché era di religione ebraica. In realtà era più un omaggio ai due manager (Arnold Weiss e Jimmy Iselin, il figlio di John, proprietario dei New York Jets, squadra di football americano), che la testimonianza di una fede a cui si era convertito in età matura.
Quindicimila dollari era la borsa di Briscoe, lo sfidante che era salito sul ring non al massimo della condizione per colpa di un’epatite da cui non era del tutto guarito.
I soldi non erano certo il principale motivo per cui l’uomo di Filadelfia combatteva, ma gli erano comunque serviti per realizzare il sogno di una vita. Comprare una casa con sei stanze e due bagni per la mamma. Era un tenerone Benny Bad Briscoe.
C’era poca gente dentro il Luna Park quella notte.
L’impianto poteva contenere quasi ventimila spettatori, solo in millecinquecento erano stati così coraggiosi da sfidare il maltemo. La pioggia aveva tenuto lontano tifosi e appassionati.

Bam. Il destro era arrivato secco, potente, distruttore. E aveva centrato Monzon al volto. Mancava poco meno di un minuto alla fine del nono round e fuori continuava a piovere, quell’11 novembre del 1972. Fino a quel momento l’argentino aveva dominato la sfida. Montanti sinistri e diretti destri si erano abbattuti sull’americano che incassava e continuava a venire avanti. Senza paura, con grande coraggio, ma senza ottenere risultati accettabili.
Sui cartellini dei giudici c’erano sette riprese per il campione, solo una per lo sfidante. Il Cattivo cercava un angolo, uno spiraglio. Gli servivano per mettersi in pari con tutto quello che la vita fino a quel momento gli aveva negato. Un pugile sa che deve meritarsi la grande occasione. E nessuno poteva dire che Benny Briscoe non se la fosse meritata.
Bad non si era mai risparmiato sul ring. Ma il titolo mondiale non era mai arrivato.
Adesso eccolo lì, vicino come non lo era mai stato.
Bam. Il destro dell’uomo calvo aveva scosso Monzon.
L’argentino era rimasto sorpreso che fosse accaduto, che ad essere in difficoltà adesso fosse lui. Un macho che passava come un treno sopra ogni nemico, senza curarsi delle macerie che lasciava lungo il cammino.
Sapeva che Briscoe era diverso dagli altri, era un duro come lui. Per questo lo rispettava. Un peso medio di Filadelfia, un certificato che garantiva la qualità del prodotto.
Carlos lo rispettava, ma non accettava l’idea di essere sconfitto.
Neppure da uno come lui.
Benny si era lanciato su Monzon. Ora o mai più. Il gancio sinistro del pelato della Pennsylvania aveva nuovamente scosso il campione. Adesso mancavano quaranta secondi alla fine del round. Doveva fare in fretta.
Si sentiva attraversato da una comprensibile frenesia.
Aveva paura che il momento passasse, che il gong arrivasse a salvare l’argentino regalandogli il tempo che gli serviva per riprendersi. E allora aveva continuato ad andare avanti e aveva piazzato un altro diretto destro. Meno potente del primo, ma comunque in grado di fare male. Monzon piegava le gambe, legava, abbracciava l’avversario. Mancavano venti secondi alla fine del nono round.
«In quegli attimi di confusione, di annebbiamento, vedevo davanti a me due Briscoe. Uno a destra, l’altro a sinistra. Due immagini confuse. Ho scelto quello a destra, mi è andata bene. L’ho colpito ed ho capito che avrei recuperato e portato a casa anche quel match».
Dieci secondi alla fine. Nessun altro colpo.
Finiva lì il Grande Sogno. Benny Briscoe non sarebbe mai diventato campione del mondo dei pesi medi.
Come era già accaduto in passato a grandi pugili come Lazslo Papp, Rubin Hurricane Carter, o i nostri Anacleto Locatelli e Roberto Proietti, il titolo assoluto sarebbe rimasto un traguardo impossibile. Briscoe avrebbe guadagnato rispetto, ammirazione, pacche sulle spalle e commenti positivi. Ma la cintura mondiale non l’avrebbe mai riportata a casa.

(tratto da “Carlos Monzon, il professionista della violenza” di Riccardo Romani e Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)

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