Una lettera dall’America, il passato che torna. La boxe è una cosa meravigliosa

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Io la mia vita ho deciso di viverla come l’ho sognata
(Sabine Azéma, Una domenica in campagna)

Questa è una storia che ho già raccontato molto tempo fa. La ripropongo oggi perché il senso di romantica avventura che la pervade mi ha regalato un po’ di ottimismo, credo sia giusto dividerlo con voi. Ne abbiamo tutti bisogno, la pandemia si è portata via tutto. Ha lasciato intatti solo i ricordi.

A quei tempi lavoravo ancora in Piazza Indipendenza.
Una mattina mi chiama il direttore Italo Cucci e mi consegna una busta bianca affrancata con un francobollo da 20 cents con la faccia di Harry Truman. Dentro c’è una lettera e un assegno da 10 dollari intestato al “Direttore Corriere dello Sport”. Arriva da Carver, Massachusetts, Stati Uniti. Il mittente si chiama Reinaldo Oliveira.
Questo racconto comincia così.
Il pugile Civitavecchiese Francesco Fratalia, una volta il fior fiore del pugilato Italiano, 1948-1952, arrivera a Civitavecchia il 14 maggio su una da Crociera Crown Princess per una felice vaccanza alla sua cara e amata Civitavecchia”.
Il testo è ripetuto, stavolta senza errori, in inglese.
Reinaldo A. Oliveira jr è il presidente dell’Associazione Internazionale dei Veterani del Pugilato. Duecentocinquanta soci nel New England, soprattutto a Carver dove al numero 96 di Rochester Road c’è la sede. Centinaia di ex pugili, arbitri, giudici sparsi in tutti gli Stati Uniti si riuniscono ogni secondo sabato del mese. Chiamo Oliveira prima di una riunione per fargli due domande.

Perchè ha spedito la lettera?
Per informarvi che Fresco Fratalia è stato eletto nella Boston Hall of Fame
E l’assegno da 10 dollari?
Per far pubblicare la notizia
Non può finire qui.

Qualche telefonata in giro per gli States e finalmente trovo il signor Francesco Fratalia. È a Fort Lauderdale, Florida, dove vive sei mesi l’anno. Quelli invernali. Gli altri sei li passa a Boston. Ha 75 anni, è vedovo da sei (l’anno della storia è il 2001): sua moglie Gloria Vena, un’americana nata da genitori avellinesi di Chiusano San Domenico, è morta nel 1995. Ha sei figli e 14 nipoti, ma di questi parlerò dopo. Adesso voglio che racconti la sua avventura.

Ero un buon pugile. Non sono mai stato un campione. Combattevo nei match d’apertura, sei round contro chiunque volesse sfidarmi. Ero forte e coraggioso. Sono venuto in America per la prima volta nel novembre del 1949, avevo 23 anni. Ho fatto un incontro a Providence, contro Frank Lane. Ho vinto. Poi sono tornato a casa. A giugno del 1950 mia moglie mi ha chiamato in America e io mi sono preparato a ripartire. A quel punto sono cominciati i guai. Ero stato balilla, avanguardista. Come tutti, o quasi, in Italia. Io però non avevo rinnegato quel periodo e l’America non voleva più darmi il visto di ingresso. Allora si è mossa mia cognata. Il marito era un tenore, aveva cantato alla Scala di Milano, si chiamava Luigi Vena. Aveva cantato anche in casa Kennedy, conosceva John  Fitzgerald che poi sarebbe diventato il presidente degli Stati Uniti. Lei andò a Washington e chiese aiuto. Mi fecero un permesso speciale e ottenni il visto. Mio cognato ai Kennedy è sempre piaciuto, ha cantato anche al matrimonio di John con Jacqueline Bouvier. Prima di partire ho fatto l’ultimo match a Civitavecchia, ho perso contro Malè, ma solo per sfortuna. Una testata, una ferita e sono andato via pieno di vergogna.

La scheda ufficiale conferma ogni parola del signor Francesco.
Ha combattuto, a cavallo tra i medi e i superwelter, 22 match: 15 vittorie, 2 pari, 5 sconfitte. Lui però dice che nella lista della nostra Federazione mancano almeno nove incontri, sette dei quali vinti, disputati negli States. Ha affrontato nomi importanti dell’epoca: Coluzzi,  Salvatore Sanna, Gustav Buby Scholz, Malè. Ma c’è un momento sul ring che non dimenticherà mai. L’ha vissuto con un uomo che veniva da Brockton, cittadina con poco più di seimila abitanti, a sud di Boston. Industrie tessili, calzaturifici, fonderie dove la forza lavoro era costituita soprattutto da irlandesi e italiani. Città di emigrati.

Ho allenato Rocky Marciano (Fratalia, primo a sinistra, con Rocky al sacco nella foto in alto), a Grossinger (lo stesso ritiro sopra New York che avrebbe ospitato Nino Benvenuti alla vigilia degli ultimi due match con Emile Griffith, ndr) mentre preparava il mondiale con Rolando La Starza.

Rolando, biondo e bello, aveva anche lui come Rocky origini abruzzesi. I nonni erano sbarcati in America con la stessa nave di Rocco ed Elisa Marchegiano. Erano i nonni di quello che sarebbe diventato il campione mondiale dei pesi massimi. La differenza, a parte la caratura pugilistica, stave nell’estrazione sociale dei due. La famiglia di La Starza era benestante, il papà aveva una macelleria ed era stato anche organizzatore di boxe.

La Starza in realtà era un mediomassimo. Per questo Marciano voleva sparring che fossero veloci, rapidi. Io ero l’uomo adatto. Lo facevo correre, ero sfuggente. Ma lui era tosto. Una volta sono riuscito a mettergli tre diretti sul naso, ha cominciato a sanguinare. Si è arrabbiato e mi ha centrato alla testa con un gancio terribile. Avevo il casco di protezione, ma è stato tremendo: sono quasi finito ko e quel pugno lo ricordo ancora.

Ha scambiato qualche colpo anche con Kid Gavilan e Marvin Hagler, quando si è esibito con il Meraviglioso aveva già 55 anni. Le borse dei suoi tempi, oggi fanno ridere: 125 dollari, la più alta negli States, per un match contro Andy Andrew; 60 per 10 a round con Paul Nichols. Ma bisogna ricordare che 60 dollari negli anni Cinquanta erano una settimana di paga di un operaio e che negli ingaggi di Fratalia ci sono anche i 1.000 dollari intascati per la sfida con Buby Scholz a Berlino il 15 aprile del ’51, sconfitta ai punti in 8 riprese.

In Italia il signor Francesco aveva lavorato come vigile del fuoco, nella caserma di via Genova a Roma.

Sono stato sotto i bombardamenti della città aperta, alla fine della seconda guerra mondiale. Ero sempre il primo ad essere chiamato, più di una volta ho rischiato di morire. Negli Stati Uniti ho fatto due lavori: ero alle chiuse quando i piroscafi dovevano entrare nel porto e facevo il pittore-muratore nella costruzione di case per ricchi. Così oggi ho due pensioni: una mi serve per vivere qui, l’altra per venire in Italia per le vacanze.

Anche quest’anno tornerà a casa. Partirà il 14 maggio da Fort Lauderdale e quindici giorni dopo toccherà Civitavecchia: il signor Fratalia viaggia sempre e solo in nave.
Un po’ nel ricordo dei vecchi tempi. Nella sua testa infatti ci sono il Constitution e il Conte Biancamano, i dieci giorni in mare aperto; gli allenamenti su un ring improvvisato dal comandante; due sparring: un marinaio di coperta, un operaio delle macchine; il footing sul ponte.
Un po’ per scelta.
L’aereo è troppo veloce, non c’è gusto.
Verrà da noi con la Crown Princess, la nave resa famosa dalla serie televisiva “Love Boat”: una sorta di albergo di lusso che solca i mari. Un’imbarcazione da 400 miliardi, nata in Italia e con un ufficiali italiani. Quasi 700 persone di equipaggio, la Crown Princess può ospitare fino a 1590 passeggeri. Un transatlantico che farà tappa alle Bahamas, in Spagna, Portogallo, Francia, Montecarlo e quindi approderà a Civitavecchia, la città dove Francesco è nato.
Lo aspettano due fratelli e una sorella. Altri due fratelli sono morti durante la guerra: il primo nel ’43 a Tarquinia, vittima di una mina. L’altro l’anno dopo. Aveva trovato un grosso proiettile a trecento metri da casa, lo stava portando dentro quando è esploso. Così se ne sono andati Salvatore e Vincenzo.

Quando sono partito per l’America pensavo di rimanere lì per poco tempo, volevo mettere da parte 6.000 dollari per comprarmi una bella casa. Sono 49 anni che vivo qui e dal 1955 ho preso anche la loro cittadinanza. Parlo ancora l’italiano perché vengo spesso a casa. Qui ho sofferto, ma adesso sono felice. Ho una mobile home (una grande roulotte, usata come abitazione: può costare dai 50 ai 200 milioni, ndr) in Florida e una casa con le fondamenta a Boston. Ho sei figli, tutti sistemati. Roberto fa il poliziotto e nel ’98 è stato eletto miglior detective della città; Stefano lavora in tribunale; Cristoforo ha un’attività nel ramo dei liquori; Vincenzo fa il postino, è il gemello di Stefano: loro due hanno giocato a buoni livelli nei campionati di hockey su ghiaccio; Francesca si è laureata in lingue e letteratura straniera; Ernesto, il più giovane, è capo elettricista. Sto bene, ma sento la nostalgia dell’Italia, perciò ogni tanto torno. Una delle pene che mi porto dietro è quella di avere lasciato ai miei tifosi di Civitavecchia il ricordo di un ultimo match perso, quello con Malè. E’ stato questo il motivo che mi ha convinto a tornare sul ring dopo più di due anni senza combattimenti. Ho voluto chiudere con una vittoria e così è stato (ha battuto Paul Nichols il 18 aprile 1954 a Boston, ndr). Non potevo ritirarmi dopo una sconfitta.

Fratalia dice di avere conosciuto, anche se per vie indirette, la mafia. Quella che governava il pugilato americano negli anni Cinquanta. Ci racconta di un campione italiano dei giovani fascisti, emigrato negli States; di un manager che gli punta la pistola alla testa per convincerlo a perdere un incontro; di signori di Brooklyn che giravano minacciosi nelle palestre. Dice che per sua fortuna non è finito mai in mezzo al fuoco. Lui faceva i match di contorno, sei round nelle riunioni che portavano in grosso sul cartellone i nomi di Rocky Marciano, Joe Louis. Si è salvato, ne è uscito senza essere mai toccato.

Metto l’assegno da 10 dollari della Rockland Trust in una busta da lettere e lo rispedisco.

Reinaldo A. Oliveira jr,
96 Rochester Rd, Carver,
MA 02330 (United States)

Allego un biglietto, poche parole.
Grazie per avermi fatto scoprire una bella storia.
Affranco e spedisco.

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