Wolverhampton, 1 agosto 2014
Leo è un omino che sorride. Neppure nei momenti di maggiore tensione si mette la maschera del guerriero. Va ovunque lo chiamino, fa il suo lavoro, incassa la parcella e torna a casa. Mai una lamentela, mai un rimprovero.
Ha una moglie, una bambina e un bambino che sanno cosa fa il loro uomo per guadagnare il salario. Adesso che il lavoro in Italia non c’è, Leo se ne va all’estero. Lì è più difficile, perché la gente ti urla contro, chi giudica il tuo operato lo fa con occhi da nemico e spesso in malafede. Ma lui alza le spalle, tira avanti e alla fine oltre al “buon lavoro” e al denaro si porta indietro addirittura qualche pacca sulla spalla.
Leo di cognome fa Bundu e di mestiere fa il pugile. È il campione europeo dei pesi welter. A novembre festeggerà i suoi primi 40 anni. Ma è ancora una belva. Sul ring di Wolverhampton, vicino Birmingham nel West Midlands britannico, ha domato l’ennesimo giovanotto inglese che avrebbe dovuto spazzarlo via come un ciclone.
È andata male al povero Frankie Gavin.
Ha capito tutto in fretta, alla sesta ripresa ha avuto la conferma che quella sarebbe stata una serata maledetta. Leo si è leggermente piegato sulla sinistra, ha preso la mira e ha infilato il montante sotto il gomito destro del malcapitato. Il pugno ha centrato il fegato. Il britannico è rimasto in piedi per un paio di secondi e poi è finito giù, al tappeto. Il resto conta poco, negli occhi mi è rimasto quel piccolo capolavoro tirato da un campione che non ha ancora avuto la ricompensa che merita.
Il match l’ha vinto, anche perché l’ha dominato con una boxe che affonda le sue radici nel gesto nobile del colpo, nel ritmo costante, nella capacità di esercitare pressione, nella voglia a quarant’anni ormai vicini di andare ancora a caccia di traguardi. Un pugilato antico nelle sue linee guida, moderno nella praticità con cui viene esercitato.
Ma non è solo questo che mi ha colpito della serata. Leo ha combattuto riportandomi indietro nel tempo, facendomi capire ancora di più quanto possa essere bello il pugilato. Uno sport che con un po’ di enfasi non esiterei a definire romantico, sicuramente contagioso perché ti lega a doppio filo con l’evento servendosi delle sensazioni che riesce a trasmetterti.
Niente tv a raccontare il match. Dalle nostre parti sembra non ci siano soldi per comprare i diritti televisivi all’estero. Pensate che Frank Warren, l’organizzatore della riunione, non ha neppure fatto la proposta alle emittenti italiane. E quando gli è stato chiesto di trattare ha sorriso davanti all’offerta e ha sdegnosamente rifiutato.
Niente tv dunque. Si fa come ai vecchi tempi. Una volta c’era la radio. Chi ha la mia età ricorda il 17 aprile del 1967. Il governo aveva vietato la diretta televisiva perché temeva che il giorno dopo gli italiani non sarebbero andati a lavorare. Così 18 milioni di nostri connazionali avevano sentito la radiocronaca di Paolo Valenti che raccontava la vittoria di Nino Benvenuti su Emili Griffith nel mondiale medi che si teneva al Madison Square Garden di New York.
Anche stavolta non c’era la tv. E la radio latitava. Allora mi sono affidato ad altra tecnologia. E l’ho visto, come hanno fatto in molti. Non tantissimi, abbastanza però per non farci sentire membri di una nicchia di carbonari che si nascondono in buie cantine per non rivelare al potere la loro esistenza.
Davanti al computer le emozioni si attenuano.
Ho visto il match chiuso nel mio studio, una lucetta accesa, le voci dei commentatori che venivano da lontano e in una lingua straniera raccontavano una realtà che non esisteva.
“Match equilibrato” “Forse Gavin ce l’ha fatta!”
Ma di che stavano parlando?
Spesso ci lamentiamo dei nostri telecronisti. Cosa dovremmo dire di questi?
Leo aveva comandato la sfida, oltre al knock down del sesto round aveva inflitto una pesante sofferenza al Frankie di casa loro nella ripresa successiva. Era stato lui a fare sempre e comunque il match. Fossi stato il parente più stretto del giovane di Birmingham alla fine avrei avuto tre punti per il campione. Avessi avuto la fortuna di essere neutrale avrei chiuso con cinque lunghezze di vantaggio.
Ma non mi va di stare qui a discutere di giudici e verdetti incredibili. Userei questo aggettivo come un eufemismo per definire il cartellino dell’olandese Robert Verwijgs che aveva 115-112 per lo sfidante.
Non ho alcuna voglia di innervosirmi, io sono qui per godere fino in fondo della vittoria di Leo.
È stata bella come un sorpasso di Valentino Rossi all’ultima curva, un attacco di Nibali in una salita del Tour, l’affondo vincente della Errigo ai Mondiali di scherma.
Metteteci chi volete.
Mi sono entusiasmato per loro, mi sono entusiasmato per Bundu.
L’unica differenza è che non vedremo prime pagine a lui dedicate, non ci saranno giornalisti che scriveranno la sua storia. Eppure sarebbe un racconto interessante. Un ragazzo della Sierra Leone che parla l’italiano con accento fiorentino e si esprime in un perfetto inglese con l’accento africano. Un uomo di quarant’anni che combatte come un giovanotto.
E poi l’infanzia turbolenta, la perdita del papà in giovane età, l’emigrare in una terra che non conosceva, la riscoperta del mondo. Problemi, sacrifici. Una donna che gli cambia la vita, due bambini che gliela rendono felice.
Ci sarebbe molto da raccontare di un uomo che merita la sfida mondiale e che forse l’avrà. Ma solo a quarant’anni compiuti.
Ho visto Bundu volare e ho sorriso.
Non ho più l’età per commuovermi davanti a un evento di sport, ma un match di pugilato va oltre. È bello perché riesce a rubarmi l’anima. E Bundu c’è riuscito anche stavolta.
Leo è un omino che sorride. Ma attenti perché anche a lui, come ai francesi quando vinceva Bartali ma anche adesso che vince Nibali, a volte girano le balle. E allora è meglio stare lontani. Si rischia di prenderle.
A meno che non si stia come me attaccati al computer, con la finestra aperta per il gran caldo che fa e il rumore delle macchine che passano a farmi compagnia. Solo davanti allo schermo su cui un piccolo grande uomo disegna la sua ennesima impresa.
È lecito commuoversi, ma senza esagerare. Basta essere consapevoli di avere vissuto quasi un’ora di emozioni. E poi andare a dormire contenti di esser stati testimoni di una bella storia, una delle tante che la boxe sa raccontare. Basta avere voglia di ascoltare.