Larry Holmes vs Michael Spinks
(21 settembre 1985)
4. continua
In un tempo in cui siamo condannati alla solitudine, mi piace
ricordare i giorni in cui attraversavo il mondo andando a caccia di storie da narrare. Non è una classifica dei migliori match della mia vita, né dei più importanti. Sono semplicemente dieci incontri che mi hanno regalato intensi ricordi.
Quando finisce il mondiale e la notte cala, sotto le luci artificiali di questa sala piena di gente vedo solo odio.
L’uomo nero è carico di risentimenti.
E li sbatte in faccia ai fantasmi del passato.
“C’è gente che accende candele per una tua sconfitta”.
Lo dice scandendo ogni parola.
Lo fa fissando un signore seduto in seconda fila.
Seguo lo sguardo del campione, quando vedo a chi è diretta tanta rabbia provo un senso di imbarazzo. Per quello che è appena successo, per quello che sono costretto ad ascoltare.
L’uomo nero ha il volto gonfio, le sopracciglia piegano verso il naso e una smorfia di tristezza sta lentamente trasformando il viso in un’espressione di dolore.
Larry Holmes è alto, possente anche se ha qualche chilo di troppo.
Ed è pieno di risentimenti nei confronti dei bianchi.
Ha sfogato molte frustrazioni la notte in cui ha distrutto in tredici round Gerry Cooney, l’uomo che l’aveva fatto sentire solo in mezzo a milioni di americani.
«Cooney mi ha sempre trattato come se fossi immondizia. È incapace di tirare fuori il buono che c’è nella gente, è bravo solo a esaltare la cattiveria che c’è nei bianchi. Se ne sta al Caesars Palace e non vuole che nessuno passi per il suo piano quando è in stanza. Quelli dell’albergo l’hanno accontentato. Con me non l’hanno mai fatto, eppure io lì ho combattuto dieci volte. Sono tutti con lui, contro di me.»
Stavolta il rivale ha lo stesso colore della sua pelle. Forse per questo non se la prende con lui, ma con quel bianco che tutti usano come esempio per deriderlo.
È sconfitto e umiliato.
“Ho 36 anni e ho affrontato un giovane pugile. Lui ne aveva 32 e affrontava un vecchio di dieci anni più anziano, eppure contro Archie Moore ha rischiato di perdere. Rocky Marciano non poteva neanche tenere il mio sospensorio”.
L’uomo nero ha lo sguardo fisso negli occhi di quel signore seduto vicino al muro, in seconda fila. Si chiama Peter ed è il fratello del mito. Accanto ci sono i figli di Marciano: la trentaduenne Mary Ann e il sedicenne Rocky jr.
Sono dieci minuti che Larry Holmes ringhia contro Peter.
Ho incrociato Mary Ann pochi istanti prima che cominciasse la conferenza stampa.
“Sono eccitata. Speravo che Spinks vincesse per Rocky, così è stato. Sono felice che il record di mio padre non sia stato battuto. È un primato che ha resistito per trent’anni e che merita di vivere ancora”.
Holmes urla parole oscene che offendono la famiglia, ne feriscono i sentimenti.
“Non mi importa nulla di cosa pensiate. Volete il campione bianco, ma finché noi negri picchieremo così forte dovrete mettervi l’animo in pace”.
È furioso il vecchio Larry, fermato da Michael Spinks a un passo dal record e dalla storia. È arrivato a 48-0, un’altra vittoria e avrebbe uguagliato il primato di Rocky.
“Ehi Peter, hai rovinato il mio spettacolo. Se non fosse stato per me, tu non saresti neppure venuto a Las Vegas e non saresti stato ospite di tutto questo al Riviera Hotel. Te ne saresti rimasto a Boston. Tu e tutti quelli come te possono restare a farsi fottere a Boston”.
Le guance si gonfiano ancora di più, gli occhi perdono forza nello sguardo. Sembrava un uomo incapace di provare rancore e ora lo sta versando a fiumi su tutto e tutti.
Ha sfiorato il record, adesso subisce le parole senza rispetto del vincitore.
“Ringrazio Gesù Cristo che mi ha dato la forza di fare quello che ho fatto, senza di lui non sarei stato capace di nulla. Holmes? Non mi ha mai dato problemi. Ha combattuto al massimo delle sue possibilità, ma io l’ho ipnotizzato al punto che non ha più saputo cosa fare. Non è stato il match più difficile della mia carriera. Molto più duro quello con Louis Rodrigues, il mio secondo rivale da professionista. Stavolta mi sento fresco, per niente provato”.
Michael Spinks dice tutto mentre sorride, ciondola con la testa e sussurra ogni parola con voce tremolante. Prende fiducia ogni momento che passa. E Holmes non gradisce, così attacca chi è più debole. Chi non può difendersi.
Non avrebbe dovuto dire quelle parole. Non c’era motivo per offendere un’icona della boxe.
A bordo ring c’era una strana atmosfera.
Non si respirava il clima del grande evento.
Holmes non cattura simpatie, non regala emozioni. Si parlava di record, statistiche, numeri. Non c’erano sentimenti forti in giro, non c’era passione.
Rocky era capace di sconvolgerci con un pugilato fatto di cuore, coraggio, forza e volontà. Ogni incontro era una scossa di adrenalina. Non c’era eleganza nella boxe di Marciano. Usava le braccia come clave che si abbattevano sul nemico di turno. Picchiava, anche quando i colpi tremendi dell’avversario provavano a sbarragli la strada. Avanzava senza fermarsi mai, se non quando il rivale era distrutto e l’arbitro gridava: “Out!”
La tragica morte in un incidente aereo ha ingigantito la sua vita sino a trasformarla in leggenda.
E poi quel record, 49-0.
Sembra qualcosa di inarrivabile, soprattutto per un peso massimo.
La boxe di Holmes ha più classe, il jab sinistro è degno di entrare nella leggenda. Ma lo sport, soprattutto il pugilato in cui si mette in gioco tutto, vita compresa, pretende che in gioco ci siano anche i sentimenti.
Se non entri nel cuore della gente, non puoi diventare un mito.
Michael Spinks lo batte, ne limita la potenza accorciando sistematicamente la distanza. Sfrutta la maggiore velocità di braccia, impone un ritmo elevato e brusche variazioni tattiche. Diventa così il primo mediomassimo a vincere il titolo dei massimi, brucia il sogno di Larry impedendogli di uguagliare il record di Rocky, lo espone alla reazione della famiglia Marciano che ringrazia lui e urla insulti all’indirizzo di Holmes.
Il colosso sconfitto ha accanto la moglie Diane. Lei gli stringe la mano, gli fa coraggio, cerca di frenarne l’impeto distruttivo. La polemica feroce sembra stonare in bocca a un uomo che finora si è mostrato a suo agio nel mare della tranquillità.
Lui la guarda negli occhi, si gira per l’ennesima volta verso la sala e chiude il discorso con una spruzzata di nostalgia e il ritorno alle buone maniere.
“Ringrazio mia moglie per essermi sempre stata vicina. Ho capito che dopo diciotto anni rubati alla famiglia è giunto il momento di smettere. Sono soddisfatto della mia carriera: ho un ristorante, un night club, sei alberghi, una compagnia di trasporti e quasi cento milioni di dollari in banca. Non ho vergogna di dire: Mi ritiro. Non devo provare niente a nessuno. In questi anni credo di essermi guadagnato un po’ di rispetto. Non capisco perché si cerchi di infangarmi. Sia chiara una cosa: ritengo Rocky Marciano uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, nessuno può togliergli questo diritto. Come potrei non avere rispetto per uno che ha vinto quarantanove volte senza mai perdere? Mi sono sfogato, credo sia comprensibile. Ehi Peter, se vieni a trovarmi ti faccio vedere tutti i souvenir di tuo fratello. Così potrai capire quanto lo stimi”.
Guardo quell’uomo e all’improvviso provo una profonda tristezza. Vedo ancora tracce di rabbia, non riesce a gestire la delusione della sconfitta, non sa come muoversi in una situazione per lui sconosciuta.
Sento il desiderio di allontanarmi, sono a disagio anche per Larry Holmes.
Esco dalla sala e incrocio un altro omone nero. Questo sì che è un vero gigante: sfiora l’1.95 e pesa attorno ai 135 chili, decisamente troppi. Cammina lentamente, ha il cranio rasato e un sorriso che ispira simpatia. Tutta la tensione che c’è in sala sembra non riesca neppure a sfiorarlo. Nonostante quel faccione simile a un’enorme palla da biliardo e una pancia extralarge che minaccia di fare esplodere i bottoni del gilet blù, lo riconosco.
Gli vado incontro, lo saluto, mi presento, gli chiedo cosa pensi di Holmes, di Spinks, di Mike Tyson che presto si batterà per il titolo mondiale con il sogno di diventare il più giovane campione del mondo nella storia dei pesi massimi.
Lui mi guarda e sorride.
“Bravi ragazzi. Ma ora torno sul ring e tra qualche anno mi riprendo il titolo”.
Sorrido anch’io, evito altre domande e me ne vado via con passo lesto.
Ho la netta sensazione di avere incrociato un mitomane, uno che non ci sta più con la testa e delira. Ha 37 anni, da quasi otto non combatte. E l’unica cosa che mi sembra abbondi in lui è la ciccia.
È il 21 settembre dell’85 e George Foreman mi ha appena servito uno scoop su un piatto d’argento.
Ma io ho ancora la mente annebbiata da un pasto esagerato e, complice quella presunzione che abbonda in ogni giornalista, stupidamente rispedisco al mittente la notizia del giorno.
Non scrivo una riga sull’argomento. Mi sembra tutto così finto.
Devo allontanarmi velocemente da questo posto.
Preferisco tuffarmi nella notte di Las Vegas.
Cammino sotto le luci accecanti della Strip.
Devo ancora smaltire il cibo mandato giù come se non ci fosse un domani.
Buono, per carità, ma vogliamo proprio dirlo? Un tantino pesante.
(tratto da Il match fantasma di Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)