LA BOXE è sofferenza. Mi piace sempre ricordare come sia l’unico sport in cui si va incontro al dolore, consapevoli che sia l’unico modo per vincere le paure e raggiungere la meta. Un insegnamento di vita che trova pochi imitatori. Per arrivare in alto è necessario soffrire. Un pugile lo sa, molti giornalisti no. È un concetto che ritroveremo in seguito.
La boxe non è per tutti. Bisogna avere un fisico speciale per farla, una mente capace di guardarla sino in fondo all’anima per capirla. In questi giorni ho sentito, letto e visto cose che hanno avvalorato la mia tesi.
Il caso Mirco Ricci (foto in alto), ad esempio.
È a mio avviso sbagliato dire “io sono un tifoso di boxe e mi interessa solo quello che il pugile fa sul ring. Quello che l’uomo fa nella sua vita privata non voglio neppure saperlo.”
Non è così che funziona.
Se vogliamo essere rispettati, dobbiamo portare rispetto. Sul ring sale un uomo che fa il pugile, uno che porta lassù la personalità, il modo di concepire la vita, l’osservanza delle regole. È questo che insegna lo sport. Altrimenti il pugilato sarebbe indifendibile.
Tanto per essere più chiaro. Non sbaglia il giornalista che scrive di qualsiasi tipo di reato commesso da un pugile. È chi ha commesso il reato che ha sbagliato.
Ho ricevuto più di un rimprovero per avere raccontato come uomo e pugile violento Carlos Monzon nel libro scritto assieme a Riccardo Romani. Come altro avrei dovuto definire un signore che uccide la moglie strangolandola e poi gettandola dalla finestra? E per quanto riguarda la sua violenza sul ring, senza andare tanto in giro chiedete a Mario Romersi che per anni è stato il suo sparring nella palestra del Flaminio.
Non è negando l’evidenza che si difende la boxe. Perché il pugilato, a differenza di quella che è la sua interpretazione popolare, è debole. Soffre di naturale emarginazione, è lontano dal grande giro. Per questo chi lo ama dovrebbe difenderlo, ma non certo nascondendo la testa nella sabbia. Il pugilato deve affrontare la realtà senza paura. Gli errori di chi sbaglia vanno sottolineati, in modo che si sappia che per uno che commette un errore non può essere condannata la totalità dello sport.
Uomo e pugile sono la stessa faccia della medaglia.
Altre sono le colpe della stampa nei confronti del pugilato.
L’approssimazione con cui ne parla, ad esempio. Ho letto su più giornali la ricostruzione dell’agguato a Ricci. Versioni contrastanti, alcune elaboravano esclusivamente la notizia d’agenzia. Non c’è stato approfondimento, lavoro. Si prende il primo flash e via.
E poi si commettono errori imperdonabili nei confronti di chi ama la boxe. Mi è capitato di leggere, tra l’altro, che Foreman aveva sconfitto Ali a Kinshasa. È’ solo una sciocchezza? Lo dite voi che non sapete cosa sia la boxe. Avreste detto la stessa cosa se su quell’importante giornale nazionale fosse stato scritto che la Germania aveva battuto l’Italia nella semifinale dei mondiali messicani del 1970 (la partita del 4-3 insomma) o nella finale dell’82 in Spagna? E sì perché la valenza dell’evento è la stessa cari ex colleghi.
Gli uomini (i pugili) sbagliano e quando lo fanno un giornalista ha il dovere di scrivere che hanno sbagliato, raccontando il crimine commesso. Nascondere la realtà vorrebbe dire non fare un buon lavoro, non essere professionisti.
Detto questo, mi piacerebbe che gli stessi giornalisti restassero professionisti anche quando non si tratta di parlare di rapine o pestaggi. Anche perché non mi sembra di avere letto titoli del tipo “Idraulico gambizzato dopo avere riparato il lavandino” o “Architetto uccide la moglie”.
Sento già salire l’obiezione. Il pugile ha maggiore visibilità mediatica di un architetto o di un idraulico. Vero, ma allora perché quando il pugile è nel suo contesto naturale, cioè su un ring, nessun giornale se ne occupa?
Se non genera interesse quando esercita la professione, se ne deduce che non è popolare e quindi non merita spazio sul giornale.
Ma a voi non sta a cuore la verità, quanto l’associazione boxe uguale violenza.
Tesi che trova riscontro nel fatto che nelle titolazioni scompare il nome del protagonista e viene usata la parola pugile. Il cognome del soggetto non direbbe nulla, ma allora perché fare titoli di apertura per una scazzottata? Fosse stato un operatore ecologico sarebbe finito nelle brevi. Il circolo vizioso non trova uscite e io continuo a farmi domande.
È chiaro che tra i giornalisti, soprattutto tra quelli che non sono mai entrati in un palazzetto dello sport, pugile sia sinonimo di violenza. È così? E allora siete comunque fuori strada: perché vi meravigliate quando un violento diventa protagonista di episodi di violenza? Sui giornali, me lo insegnate, finisce l’insolito, l’eccezione. Nessuno si sogna di titolare una buona azione, è il male che deve essere esaltato. Il campione maledetto, lo scrivo da sempre, è quello che piace di più.
Non scrivereste mai un pezzo su un elettricista che ripara un guasto all’impianto elettrico di casa vostra, su un vigile che dirige il traffico. È questo che vi aspettereste da quei due professionisti, sono notizie che non ecciterebbero la vostra fantasia perché rappresentano la normalità.
Da qualsiasi parte la si guardi, la questione genera molti dubbi.
Non mi piace che il popolo della boxe non accetti che i suoi peccati vengano portati all’attenzione della gente, come è giusto che sia. Non mi piace che i giornalisti si occupino di pugilato in modo frettoloso, sporadico e assai raramente professionale.
Se un pugile è violento fuori dal ring, non si può pensare, dire e scrivere che lo sia l’intero mondo della boxe. È come se dopo uno scandalo scommesse nel calcio tutti avessero detto che l’intera stampa italiana era corrotta. Generalizzare senza avere prove a sostegno è un errore imperdonabile.
Molti pugili hanno storie tragiche alle spalle (sopra, Mike Tyson mette ko Berbick), vecchi legami con la malavita. Qualcuno ne è uscito, altri non ce l’hanno fatta a staccarsi. Alcuni pugili sono uomini che peccano, altri hanno ritrovato la strada giusta proprio grazie a questo sport. Pensate che ce ne sono addirittura alcuni che non hanno mai commesso reati, incredibile eh?
È la vita.
Il pugilato ha salvato tanti ragazzi. Non solo con la sicurezza economica che ha accompagnato il successo. Ma anche con alcuni fondamentali insegnamenti di vita.
Il rispetto delle regole e degli altri, cosa assai rara in una società moderna che perdona qualsiasi scorciatoia se finalizzata al raggiungimento del traguardo.
Il rispetto per il proprio corpo, consci che sul ring non si può bluffare.
La cultura del sacrificio, consapevoli che solo facendolo diventare parte della propria esistenza si possano realizzare i sogni.
La capacità di incanalare la forza fisica attraverso un percorso strategico che richiede intelligenza e autocontrollo.
E infine, come ho detto all’inizio di questo articolo, la certezza che la paura vada affrontata. La boxe è uno dei rari momenti della vita in cui vai incontro al dolore, anziché fuggirne, perché sai che è l’unico modo per riuscire a farcela.
Chi sbaglia deve pagare per l’errore commesso, siano pugili o giornalisti. E che tutti lo sappiano.



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