
Si è aperto un contenzioso tra generazioni diverse di frequentatori del mondo pugilistico. Ho l’impressione che, nella frenesia della polemica, si sia perso lo spunto che l’ha generata.
Il pugile punta al risultato. È questo che conta. I fatti sono i pilastri di ogni presa di posizione, o almeno dovrebbero esserlo. Se io riesco a diventare campione del mondo ricco e famoso allenandomi correndo all’indietro in salita e facendo scena muta davanti ai microfoni, o centri lo stesso risultato sgobbando in palestra e insultando ogni giornalista che viene a intervistarmi, sono aspetti secondari del problema. Il metodo migliore (all’interno delle regole) è quello che produce campioni.
Il mondo è cambiato, non vedo perché il pugilato non avrebbe dovuto farlo. Si tratta solo di capire se sia cambiato in meglio o in peggio. L’unico metro di giudizio sono i numeri. Dicono molto di più delle chiacchiere.
La pay per view ha stravolto l’intero sistema. Oggi ci sono pugili che guadagnano come mai è accaduto in passato. Vero. Ma è anche vero che i soldi arrivano a pochi, il 90% dei pugili hanno compensi inferiori a quello che i loro colleghi percepivano molti anni fa. Nel mondo, non solo in Italia.
Mayweather re della PPV ha raggiunto l’apice con 4,6 milioni di spettatori contro Manny Pacquiao. Il secondo Muhammad Ali vs Leon Spinks (in chiaro su uno dei grandi network americani) ha toccato i 90 milioni di telespettatori negli Stati Uniti, che sono diventati due miliardi nel mondo. Restando in casa nostra Patrizio Oliva vs Rodolfo El Gato Gonzalez, in prima serata su Rai2 a gennaio ‘87, ha registrato un’audience di 9.881.000 spettatori.
La popolarità apre nuove strade, genera interesse e regala un futuro a questo sport? Bisogna stare molto attenti a come gestire il concetto. Potrebbe sfuggirci di mano. Se ci si convincesse che è la popolarità il motore attorno a cui gira l’universo pugilistico, dovremmo pensare che Jake Paul vs Mike Tyson (60 milioni di utenti per il loro match), in offerta gratuita per gli abbonati di Netflix ma sempre sessanta milioni sono, è di gran lunga il meglio che la boxe di oggi possa offrire. Se è questa la parte di campo in cui giochiamo, dobbiamo fare un altro passo avanti e dire brutalmente che il pugilato non ha futuro. Perché sarà, in un futuro prossimo, sostituito da uno spettacolo con due uomini che sul ring recitano un copione. Questa è una strada che porta verso il wrestling, ma almeno lì la sceneggiatura è scritta dagli autori delle più popolari serie televisive.
Se invece vogliamo che la boxe abbia un domani, fermiamoci ai risultati agonistici. Agli incontri, alle storie che i campioni possono raccontare. Il personaggio, un tempo (se non dico così a 75 anni, quando mai avrò il permesso di dirlo?), si costruiva con il racconto non con le finte risse o le dichiarazioni ad minchiam. E, cosa di primaria importanza, riconosciamo le difficoltà di questo sport nel nostro Paese. Se il malato non ammette di esserlo, difficilmente potrà trovare una medicina che riesca a guarirlo.


Le tabelle che pubblico sopra sono spietate. Si chiudono al 2022.
Negli ultimi due anni e tre mesi non abbiamo vinto un mondiale tra i professionisti. E all’Olimpiade di Parigi ’24 non siamo saliti sul podio.
Due periodi a confronto.
Nel primo, il bilancio del dilettantismo nel passato è migliore di quello ottenuto negli anni più recenti, anche se sul settore si è investito molto di più in epoca moderna. Disastrosi i risultati delle ultime tre Olimpiadi (maschili) zero medaglie a Rio 2016, nessun qualificato a Tokyo ’20, zero medaglie a Parigi ’24. Tra i professionisti poi, il divario diventa abissale.
Questo dicono i fatti. Forse non erano poi così disastrosi i metodi di allenamento di ieri, non erano così sbagliati i percorsi dei vecchi maestri.
Questo dicono i fatti. Da questo bisognerebbe ripartire.
E, credetemi. Vuole più bene a questo sport chi ha il coraggio di riconoscerne i punti deboli (fatti alla mano), di chi ne enfatizza i risultati spacciando per eclatanti quelli che tali non sono.
Altrimenti si scivola in chiacchiere da social, appunto.

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