ESCLUSIVO. De Carolis annuncia il ritiro, e racconta una vita da pugile

Giovanni De Carolis (33-11-1, 16 ko), classe 1984, annuncia il ritiro. È stato l’ultimo italiano a conquistare il titolo mondiale professionisti in una delle quattro maggiori sigle (supermedi WBA nel 2016). Gestisce una palestra a Monterosi, dove vive assieme alla compagna Veronica e ai due figli (Erin di 16 anni, Noah di 11). Il campione romano racconta in questa intervista esclusiva una vita sul ring.

Quando hai deciso di diventare pugile?
“Avevo 13 anni. Sono entrato in una palestra in fondo alla Circonvallazione Ostiense, a Roma. Volevo sapere cosa fare per allenarmi. Ho visto un ring piccolino, una serie di sacchi, altri attrezzi. E poi ragazzi che facevano sparring. Mi sono subito innamorato di questo sport, non l’ho più lasciato.”
Quando hai cominciato a boxare?
“A 18 anni. Mamma era assolutamente contraria. Ho dovuto aspettare che diventassi maggiorenne.”
Primo match?
“Giugno 2004, stavo con Cesare Frontaloni. In un torneo II Serie per pesi medi a Torrimpietra. Ho affrontato un ragazzo che aveva otto incontri. Ho perso ai punti. Non volevo più fare il pugile, l’avevo presa davvero male. Mi ero allenato tantissimo e avevo perso.”

E poi?
“Ho cominciato a giocare a calcio con le giovanili dell’Almas, l’ho fatto (in contemporanea con il pugilato) fino a 23 anni. A settembre del 2004 un amico di mio zio ha aperto una palestra vicino alla Garbatella, alla Montagnola. Lì ho incontrato Italo (Mattioli, foto sopra con Giovanni) e Gigi (Ascani, foto sotto nella palestra della Team Boxe Roma XI). A novembre ho esordito con loro. Venti anni dopo siamo ancora assieme.”


Cosa sono i due maestri per te?
“Qualcosa di unico, irripetibile. Quando sono entrato in palestra mi sentivo insicuro. Con loro mi sono trovato subito bene. Rendevano semplici anche le cose difficili della vita, non volevo mai deluderli. Ho sentito subito che era un legame forte, ancora adesso eseguo quello che mi dicono come se fossi un ragazzino.”
Perché ti sei innamorato del pugilato?
“Dentro il ring puoi provare a decidere il tuo destino. Puoi sovvertire un pronostico, realizzare un sogno. E se alla fine non ci riesci, almeno ci hai provato. Nella vita la gente dice “La tua strada non potrà mai essere diversa da quella che stai percorrendo, è stato e sarà sempre così”. E invece il pugilato può smentire quello che pensano gli altri o addirittura quello che pensi tu stesso. Non è per rabbia che sono diventato pugile. Amo le sfide. Mi è sempre piaciuto misurarmi con gli altri. La boxe ti mette alla prova. Ti mette a confronto con un’altra persona che ha le tue stesse intenzioni. È una sfida continua. Ti fa stare bene, ma ti fa anche soffrire. Come del resto fa la vita.”
Le notti prima del match. Come le hai vissute? 
“Restando solo con le persone a cui voglio bene, con il mio gruppo. Leggo, faccio tanti esercizi di respirazione. Penso a cose che non c’entrano niente con l’incontro, cerco di portare la testa più lontano possibile dal momento in cui salirò sul ring.”
Sei scaramantico?
“No. L’unica abitudine che si è metodicamente ripetuta nel tempo è stata quella di portarmi nella camera d’albergo tutto quello che serve per cucinare. Seguo una dieta, curo il peso. Voglio un’alimentazione sana. Dentro la camera metto la piastra, le pentole, la roba da mangiare. A volte è accaduto che suonasse l’allarme antincendio per il fumo. E allora ho imparato ad aprire un po’ la finestra, a mettere una pellicola sull’allarme.”


Cosa ricordi della notte mondiale?
“Mancavo sempre il momento giusto. Avevo perso il titolo italiano, la gente diceva “Quando c’è da ballare, Giovanni non balla”. Anche nella vita privata stavo attraversando un momento difficile. E poi, sentivo sempre lo stesso ritornello. “Fuori se non vinci per ko non vinci, quello è imbattuto (21-0, 21 ko), più giovane di undici anni, dove vai?”. Tutto, pugilato, lavoro, famiglia non girava come avrebbe dovuto girare. Quella sera però era tutto diverso. Ero pronto. Ero sicuro di farcela. L’avevo anche scritto sul diario. “Metterò ko Vincent Feigenbutz”. Finito il combattimendo sono stato sommerso da una valanga di emozioni. Avevamo dostrutto lo stereotipo. Noi tutti, io, la mia compagna Veronica (foto sotto), Italo, Gigi, il gruppo intero, avevamo scalato la montagna.

Mi ero seduto al tavolo da gioco, sapevo che l’altro aveva un poker di assi servito. Avevo ugualmente deciso di andare a vedere con un 7 di quadri. Mi era entrata una scala reale! Ho vinto perché ho accettato la sfida, quando tutti pensavano che avessi il nulla in mano. Mi ricordo quando mi chiamò Davide Buccioni. Stavo passeggiando in strada. Avevo battuto Ndiaye, pensavo che mi avrebbe offerto un match importante, magari ben pagato. Ma non pensavo proprio che avrei disputato il mondiale. Feigenbutz lo conoscevo, se ne parlava, il suo promoter Sauerland andava molto forte. Ero su di giri, contento, non vedevo l’ora. Siamo partiti con un sogno che non era più grande di un granello di sabbia e siamo tornati a casa con un castello. Ricordo il momento in cui l’arbitro ha dato lo stop, vedo salire la mia compagna, vedo Italo e Gigi che si si abbracciano. Ho provato tanta commozione, soprattutto per quello che avevo vissuto prima.”


Il match contro Daniele Scardina ha segnato un’altra tappa del tuo cammino.
“Si ricreava ancora una volta la vigilia di sempre. Quel match era un trampolino per Daniele. Imbattuto, popolare, aveva un’immagine forte. Ogni volta che andavo ad allenarmi pensavo: mi hanno preso per avere un altro scalpo da mostrare. E questo mi metteva una carica addosso. Sapevo cosa fare. Quel giorno sarei salito sul ring allenato in modo incredibile. Sono situazioni in cui riesco a dare il massimo. In momenti più semplici non sono riuscito a vincere. Ho fatto il Mondiale a 32 anni contro un ragazzo più giovane, con tanti ko e come se non bastasse in casa sua. E ho vinto. A 37 anni affrontavo Scardina, i bookmaker pagavano otto volte la posta in caso di un mio successo. Quando vince il pugile sfavorito e lo fa in modo emozionante, quando il pugile con poche possibilità riesce a battere Golia, tutto diventa esaltante. Il riscatto di chi era visto perdente sicuro, emoziona.” 
Vi siete mai parlati dopo il match?
“Gli ho scritto dei messaggi, ho rispettato la sua riservatezza. Mi sentivo in difficoltà, sapevo che per lui quel combattimento era stato una delusione enorme. Ci siamo sentiti telefonicamente a gennaio 2023, dopo l’annullamento della rivincita. Ci siamo chiariti, mi ha detto: “Non riesco più a rientrare nel peso”. Ero a Magdeburgo per fare sparring con Michael Eifert che doveva disputare il mondiale in Canada contro Jean Pascal. Quando sono tornato in camera dalla palestra ho avuto la notizia che si era sentito male. Dopo che è uscito dal coma, gli ho scritto qualche messaggio.” 
In quali percentuali, mente e qualità tecniche influiscono sul risultato?
Mente 80, qualità 20. Specialmente nel professionismo. La qualità è importante. Ma il momento decisivo è quando riesci a sentirti forte nella testa e sai gestire il cuore, la passione, l’emotività.”


Il mondiale è il momento più bello della carriera. Quale è stato quello più brutto?
“Direi che sono stati due, davvero brutti. Il primo a Kiev, in Ucraina nel 2008, quando ho perso il primo match pro della carriera. Una batosta allucinante. Pensavo di essere un buon pugile, anche se fino a quel momento avevo fatto solo contro mestieranti. Mai preso una batosta così. Mi sono anche rotto due denti. Mi sentivo avvilito, sconfitto dentro. Sono stato male per venti giorni. Mi ero impegnato tantissimo, quel match mi ha fatto capire che l’impegno non bastava. Dovevo dare una logica alla preparazione, dovevo imparare a capire che puoi anche non farcela. Non ero pronto per quello. È stata dura ripartire con i sogni distrutti. Non avevo tanti soldi, non c’era continuità nella mia vita. Fino al 2010 tutto è stato davvero complicato.
Il secondo momento brutto è stato addirittura peggiore. È durato da qualche giorno prima del mondiale 2016, fino a tutto il 2017. C’era un evento a Roma, avevo contattato delle persone per discutere un progetto per il pugilato. Sono arrivati altri problemi personali. Mi allenavo bene, ma avevo la testa divisa a metà. Una parte voleva fare il pugile e riprendersi il titolo, l’altra voleva smettere. Ho ricominciato a tornare nella normalità nel settembre  2018.” 
Perché un pugile non vorrebbe mai ritirarsi?
“Guardavo Roy Jones jr, era quasi a fine carriera. Poi, ogni tanto, se ne usciva fuori con qualche match. Prendeva botte, ma andava avanti. Mi dicevo come fa questo che è stato un grande campione a non fermarsi? Chi glielo fa fare? Pensavo fosse una cosa legata ai soldi. Poi ho capito che non era così. Quando combatti hai il tempo scandito dagli impegni. La preparazione, ogni giorno in palestra, l’alimentazione, la tensione, le emozioni sono la tabella di marcia della tua vita. Nel match trovi sensazioni difficilmente rivivibili in altre circostanze. La sfida, la voglia che ti assale quando qualcuno ti propone un nuovo match. Ti dici: mi vogliono perché sono vecchio e pensano che sia un rivale facile da battere. E allora ti rimetti in gioco. Il fatto economico è solo una scusa per avere un alibi che ti liberi la coscienza e ti faccia rimettere in discussione. Dopo l’europeo ho fatto un pugilato molto calcolatore, non volevo subire colpi. Cominciavo a sentire la differenza sul piano della prestazione. Una cosa è quando hai 30 anni, l’altra quando ne hai quasi 40. La boxe è uno sport duro, devi stare molto attento. Non solo nel combattimento, ma anche quando ti alleni. Si allungano i tempi di recupero, per arrivare a uno stato di forma ottimale hai bisogno di più giorni, mesi. Italo mi ha detto più volte “Dopo questo incontro, basta”. Voleva proteggermi. Mi hanno proposto altri combattimenti, non li ho presi in considerazione. Mi lusingava però il fatto che mi cercassero.” 
Perché e quando hai deciso di smettere?
“Voglio provare a fare altre cose. Fino a qualche giorno fa, quando mi chiedevano “Giovanni, ti sei ritirato?”, rispondevo “Sto in finestra, aspetto”. Non riuscivo a dire “Ho finito”. Quando al telefono, qualche giorno fa, mi hai chiesto se avessi deciso il mio futuro, sono tornati alla luce tutti pensieri degli ultimi tempi.  Ho riflettuto. E adesso ho trovato la forza di dire “Basta Giovà, hai 40 anni”. Oltre al discorso fisico, c’è anche una questione di amor proprio. La cosa più brutta quando combatti è di provare a fare delle cose che prima ti venivano facilmente e non ci riesci. Basta, chiudo qui. Tiro una linea, metto la boxe agonistica tra i ricordi. Belli, ma ogni cosa ha il suo tempo. È ora di cominciare a proccuparmi di altre cose.”
Quali sono i tuoi progetti?
“Lavorerò sempre nel pugilato. Ho una palestra a Monterosi. Organizzo eventi con la De Carolis Promotions. Cerco di costruire una struttura che dia continuità all’attività pugilistica. I rapporti internazionali, che nel corso degi anni ho costruito con personaggi importanti. mi potrebbero consentire di allestire qualcosa di bello per i pugili italiani.  Voglio seguirli nel modo in cui avrei voluto essere seguito io quando avevo 20 anni. Vorrei farli combattere con grandi avversari anche in Italia. Da qui a cinque anni spero di riuscire a realizzare questo programma. Struttura, marketing, promozione, organizzazione, preparatori, allenatori per potersi esprimere al massimo. È un sogno, ci credo. Proverò a realizzarlo.”
Ultima domanda. Quale è la spinta che ti ha sempre accompagnato?
“La passione. È la cosa più importante. Devi praticare la boxe solo per passione. Dico questo non perché non ci siano soldi, un pugile bravo può guadagnare. La passione non deve abbandonarti mai, altrimenti il pugilato diventa pericoloso ed è meglio che tu ne stia lontano. La spinta è la passione, l’amore per questo sport. Che poi è quello che ti attrae all’inizio e rende terribilmente difficile il momento in cui devi dire basta.”


,

Lascia un commento