
Credo che Angela Carini abbia sbagliato il modo scelto per uscire di scena.
Se pensava che la rivale non le avrebbe permesso di combattere ad armi pari, aveva tutto il diritto di rinunciare al match. La mente, la psicologia di un pugile, è importante almeno quanto lo sono il modo e la potenza con cui l’atleta porta i colpi.
Poteva salire sul ring, sentire il suono della prima campanella, salutare l’arbitro, inchinarsi al pubblico e scendere dal quadrato. La protesta avrebbe avuto un’unica interpretazione.
“Non sono io a fare le regole, non so se siano giuste o meno, ma credo di avere tutto il diritto di non sottopormi a questo test che ritengo dannoso per la mia salute.”
Rimanere coinvolta nel match per quarantasei secondi e poi abbandonare perché l’altra “fa malissimo” non è stata, a mio parere, una decisione saggia. La motivazione della scelta non può essere il danno causato dal colpo. Alla possibilità di subire quel pugno, se pensava potesse essere drammaticamente pericoloso, non doveva mai arrivarci.
Non metto in discussione il fatto che i colpi di Imane Khelif facciano davvero male, non c’ero io sul ring. Ripeto, è la soluzione scelta da Angela Carini che mi sembra sbagliata.
Io non so per certo quale sia l’identità di genere dell’algerina, per questo non entro in questo contesto. So che il CIO ha dichiarato l’ammissibilità della sua partecipazione.
Aggiungo e ripeto. Cominciare l’incontro e andare via dopo quarantasei secondi, dicendo “Fa tanto male!” non è il modo migliore che un pugile possa scegliere per dare forza alla protesta contro un’ipotetica ingiustizia.

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