
Montante destro.
Tre colpi a vuoto, due al corpo.
Ancora un gancio sinistro al volto.
Picchia solo lui, lo sfidante.
Il campione vacilla, le gambe cedono, si aggrappa alle corde. È un bersaglio facile.
Gancio sinistro alla mascella, destro che sfiora il bersaglio.
Il gancio sinistro che chiude la sfida è devastante.
Sono passati 2:06 dall’inizio del match e Floyd Patterson è knockout.
Sonny Liston è il nuovo campione del mondo dei pesi massimi.
C’è odio negli sguardi e nell’anima di molti dei diciannovemila spettatori che riempiono il Comiskey Park di Chicago. È la notte del 25 settembre 1962.
Hanno tutti tifato per il negro buono. Sono anni difficili per gli afroamericani.
Non possono frequentare le università statali, in treno sono costretti a viaggiare in vagoni separati, al ristorante devono mangiare in tavoli lontani da quelli dei bianchi, hanno anche chiese separate. Fanno lavori inferiori, per una paga inferiore. Nel profondo Sud un bianco può uccidere un nero e sperare (con buone probabilità) di essere assolto.
Martin Luther King ha appena cominciato la battaglia per i diritti civili, nelle strade si canta We shall overcame in attesa della grande svolta. Il presidente è John Fitzgerald Kennedy, suo fratello Robert è il Procuratore Generale. Anche loro tifano per il nero integrato, quello che non pone dubbi, non fa paura.
L’Orso ha tutti contro.
Floyd Patterson, per John Kennedy: “È un esempio per la gioventù”.
Il presidente lo convoca alla Casa Bianca e gli ordina: “Devi assolutamente batterlo”. Il campione potrebbe evitare la sfida, nessuno gliene farebbe una colpa. Ma lui ha paura che la gente possa considerarlo un vigliacco.
Liston ha messo ko Cleveland Williams, Roy Harris, Nino Valdes, Zora Folley. Picchia e incassa qualsiasi colpo. Sembra imbattibile. Patterson non può evitarlo.Floyd si allena in un ritiro lontano dal mondo, un eremo solitario. Sonny va in un ippodromo abbandonato, sistema la palestra dove una volta c’era il baracchino delle scommesse.
Patterson ha la sconfitta nella mente. Ha paura di perdere, un incubo gli fa compagnia.
“Noi pugili abbiamo sempre paura. Non abbiamo paura di farci male, ma di perdere. Perdere sul ring è peggio che in qualunque altro posto. Il pugile sconfitto perde qualcosa di più che il suo orgoglio e l’incontro, perde una parte del suo futuro e torna a un passo dal quartiere malfamato da cui proviene.”
Finisce tutto in meno di tre minuti. Floyd Patterson scappa da una porta sul retro dell’Arena. Si camuffa dietro una barba finta e un paio di occhiali neri. Non ha il coraggio di guardare neppure sé stesso. Preferisce il buio della notte agli occhi pieni di compassione di chi un tempo, non troppo lontano, lo sommergeva di applausi.

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