
“Un colpevole punito è un esempio per la canaglia; un innocente condannato è cosa che riguarda tutti gli uomini onesti” (Jean de La Bruyère, I caratteri, 1688)
È una calda sera di fine giugno del ’66. Iwao Hakamada ha trent’anni, dopo avere chiuso con il pugilato ha trovato lavoro in una fabbrica di soia. Nelle prime ore della notte un violento incendio scoppia all’interno della casa del suo datore di lavoro. Iwao, che dorme in una costruzione vicina, corre subito a dare una mano e aiuta a spegnere l’incendio.
Stesi sul pavimento di casa vengono scoperti quattro corpi. Il padrone della fabbrica, sua moglie e i loro due bambini. Tutti pugnalati a morte. Sono stati rubati 200.000 yen. Viene trovata l’arma del delitto, un coltello con una lama di 14 centimetri.
La polizia ferma Hakamada. Sembra che sul suo pigiama ci sia una minima quantità di sangue.

Viene portato in Centrale e interrogato.
L’interrogatorio dura 264 ore, con turni ininterrotti di sedici ore. Per 23 giorni Iwao Hakamada subisce ogni forma di tortura. Lo prendono a calci, lo incappucciano, gli impediscono di dormire, non lo fanno andare in bagno, non lo fanno bere.
“Non potevo fare altro che accovacciarmi sul pavimento cercando di evitare di defecare.”
Uno dei poliziotti gli fa mettere il pollice su un tampone di inchiostro, gli fa vedere una confessione già scritta e gli urla un ordine mentre gli torce il braccio.
“Scrivi qui il tuo nome!”
Iwao confessa gli omicidi.
Il processo è solo il proseguimento della persecuzione.
Il pigiama è scomparso, al suo posto appaiono cinque pezzi di vestiti con macchie di sangue. Una t-shirt e un paio di pantaloni sono le prove determinanti.
La difesa fa presente che se l’assassino ha colpito con una lama così lunga non possono non esserci ferite anche sul suo corpo.
Hakamada non presenta alcun taglio.
Nel 1968 una commissione di tre giudici lo dichiara colpevole di strage e lo condanna a morte per impiccagione.
Viene trasferito nel braccio della morte.

Hakamada è forte. È stato un pugile di valore, ha avuto un’intensa attività dal 1959 al 1961 come peso gallo e piuma, ha messo assieme 29 match, ne ha vinti 16. L’anno migliore è stato il 1960 (13+ 4- 1=) quando lottava per battersi con i migliori. È forte, ma la macchina della giustizia giapponese è pronta a stritolarlo.
Continua a dichiararsi innocente, proclama l’assoluta estraneità al fatto. Gli credono solo le persone che gli stanno vicino. Passanto quindici lunghi anni. Poi, ha inizio una lenta, sofferta svolta.
Nel 1980 la Corte Suprema rifiuta la richiesta di un nuovo processo. Ma il Ministro della Giustizia continua a non firmare l’ordine di esecuzione. Non è sicuro che il modo in cui si è giunti al verdetto sia stato del tutto corretto.
Il mondo del pugilato si schiera in difesa di Hakamada.

Rubin Carter, che ha vissuto sulla sua pelle una situazione simile, parla in suo favore. La Japan Pro Boxing Association è la più attiva. Forma il comitato “Free Hakamada Now” (foto sopra), raccoglie firme. L’ex presidente e campione mondiale dei paglia Hideyuki Ohashi crea un team di appoggio assieme al segretario generale Shosei Nitta e all’avvocato Tomoyuki Kataoka.
L’attore Jermy Iron interviene pubblicamente sul caso.
Nel braccio della morte Iwao continua a vivere immerso nell’incubo.
Non può parlare neppure con le guardie, può ricevere rarissime visite. La sorella Hidako lotta al suo fianco con tutte le forze.
Norimichi Kunamoto, uno dei tre giudici che hanno decretato la condanna a morte, parla pubblicamente dei suoi dubbi. Dice di non essere mai stato convinto della colpevolezza. Confessa di avere cercato di convincere gli altri due giudici ma di non esserci riuscito. È stato un verdetto a maggioranza.
In Giappone scoppia lo scandalo. Nessuno aveva mai parlato prima dei conflitti all’interno del gruppo di giudici alla vigilia della sentenza.
Gli avvocati che difendono Hakamada scoprono nuove prove a supporto dell’innocenza. La tortura per estorcere la confessione è ormai assodata. Il DNA trovato sulle macchie di sangue dei vestiti portati in tribunale come prove evidenti non combacia con quello di Iwao. I pantaloni sono di almeno tre misure più piccoli della taglia del condannato (foto sotto).

Crescono le invocazioni di giustizia da parte del mondo della boxe. Il World Boxing Council nel Congresso del 23 novembre 2014 raccoglie le firme di campioni e dirigenti per “Free Hakamada Now”. L’ex campione dei massimi Vitali Klitschko è il testimonial più importante.
Finalmente la Corte riconosce le nuove prove a discolpa e ordina un processo di revisione. Nell’attesa libera subito Iwao Hakamada.
“È insopportabilmente ingiusto prolungare ulteriormente la detenzione dell’imputato – dice il giudice Hiroaki Murayama in un comunicato – La possibilità della sua innocenza è diventata chiara a un livello più che rispettabile.”

Giovedì 27 marzo 2014 Iwao Hakamada (nella foto con la sorella Hidako) esce dal carcere di Shizuoka, lascia nel braccio della morte 129 condannati. Gente che come lui non sa quando e quale sarà la sua fine. La notizia dell’esecuzione viene data ai detenuti solo un paio d’ore prima dell’impiccagione.
L’ex pugile è in condizioni fisiche e mentali disastrose a causa degli ultimi anni di detenzione. In isolamento, privo di contatti anche con l’esterno e in angosciante attesa di una guardia che gli comunicasse quante ore avesse ancora da vivere, ha accumulato uno stress insopportabile.
Fuori dal carcere ha trovato la sorella. Hidako è la prima ad abbracciarlo.

Il 6 aprile 2014 a Tokyo il Wbc gli consegna la cintura verde e oro di campione onorario. Dopo 46 anni nel braccio della morte (mai alcun altro detenuto vi è rimasto così a lungo), l’innocente Iwao Hakamada è fuori dalla prigione.
Gli gli è stato garantito un nuovo processo. La pubblica accusa ha fatto ricordo e nel 2018 il verdetto è stato ribaltato. Viste le cattive condizioni di salute, gli è stato concesso di attendere la nuova sentenza in libertà.
Nel 2020 la Corte Suprema giapponese, nel tentativo di ottenere l’assoluzione, aveva impedito ad Hakamada di essere nuovamente processato. Nel marzo di quest’anno, nel giorno del suo compleanno, l’Alta Corte di Tokyo ha disposto la revisione del suo processo.
Hideaki Nakagawa, direttore di Amnesty International Giappone, ha dichiarato: “Questa sentenza offre un’opportunità per rendere giustizia a un uomo che ha trascorso più di mezzo secolo sotto condanna a morte, nonostante la palese iniquità del processo. La sua condanna era basata su una confessione forzata e ci sono seri dubbi sulle altre prove usate contro di lui. Eppure, all’età di 87 anni, non gli è stata ancora data l’opportunità di impugnare il verdetto che lo ha tenuto sotto la costante minaccia della forca per gran parte della sua vita. Ora che l’Alta corte di Tokyo ha riconosciuto il diritto di Hakamada al giusto processo, negatogli più di 50 anni fa, è imperativo che i pubblici ministeri permettano che ciò accada”.
Iwao Hakamada ha 87 anni ed è gravemente malato.

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