
Il 23 maggio Brockton (Massachusetts) celebre il Marvelous Marvin Hagler Day. È il giorno in cui il campione avrebbe compiuto 67 anni. L’evento si terrà al Rocky Marciano Stadium, davanti alla Brockton High School, nella cui palestra Marvin ha esordito al pugilato professionistico. Bernard Hopkins terrà un discorso. Hagler (62-3-2, 52 ko) ci ha lasciati il 13 marzo scorso.
Ho visto combattere per la prima volta Marvin Hagler il 30 giugno 1979, quando Rodolfo Sabbatini l’ha portato Montecarlo. Pat e Goody Petronelli, i manager, non avevano viaggiato con sparring al seguito, Bob Arum li aveva rassicurati. «Non servono, in Europa ce ne sono a decine e costano molto meno». Gli organizzatori sono particolarmente abili nel mentire. Nelle due settimane di avvicinamento al match contro Norberto Cabrera, Marvin aveva fatto i guanti solo con Goody. I suoi montanti avevano comunque distrutto il medio argentino, al punto da costringere l’arbitro Christodolou a fermare il combattimento all’ottavo round.
Meraviglioso.
Era accaduto nella primavera del 1982, nello stesso giorno in cui aveva Marvin fatto certificare la sua data di nascita dal Tribunale. Di anni ne aveva 28, non trenta. Ne aveva infatti compiuti sedici quando Goody Petronelli l’aveva convinto ad invecchiarsi di altri due per esordire subito da professionista.
Era stato un giornalista di Lowell, Massuchessets, a chiamarlo per primo Marvelous. Hagler combatteva ancora da dilettante e quel cronista l’aveva ribattezzato con un soprannome degno di Ali. Strusciava le suole andando all’indietro con movenze da breakdance, era una vera danza. Ma non era un fighetto, sapeva colpire duro.
«Tutti salivano su quel palcoscenico per farsi vedere. Io ci andavo per trovare la mia identità. Mi divertivo come un ragazzo, ma combattevo come un uomo».
Meraviglioso.
Gli piaceva. Aveva chiesto a tutti di chiamarlo così. Quando il giornalista di un grande network si era rifiutato di farlo, lui era andato dal giudice. Ed era diventato Marvelous Marvin Hagler. Non ci sarebbero più stati equivoci o omissioni.
Era nato a Newark, primogenito di Ida Mae e Robert Sims (non erano sposati). Il papà aveva lasciato casa quando lui era ancora bambino. Con la mamma erano rimasti altri cinque figli. Ida Mae aveva insegnato ai ragazzi a rispettare il prossimo se volevano essere rispettati. Vivevano in una zona pericolosa. Il 12 luglio del 1967 la città era stata sconvolta dalle sommosse contro il razzismo. Ida Mae aveva chiuso tutte le finestre, aveva messo le sedie a rafforzare i lucchetti delle porte. Aveva costretto i figli a camminare strisciando per terra, al massimo carponi, piegati in ginocchio per evitare di essere colpiti. Due proiettili si erano infilati in camera da letto. Per tre giorni nessuno era uscito di casa. Al quinto giorno gli scontri erano cessati. Ventisei morti tra dimostranti e polizia, 725 feriti gravi, dieci milioni di dollari di danni. Due anni dopo, gli scontri si erano ripetuti e Ida Mae si era arresa. Aveva portato la famiglia a Brockton, 25 miglia a sud di Boston. La città di Rocky Marciano.
Hagler a dieci anni aveva indossato i primi guantoni. Glieli aveva regalati Mister Joe, un assistente sociale. Erano rossi, il colore che preferiva. Il colore del sangue. A 14 anni lavorava in un negozio di giocattoli, a quindici era assunto dalla ditta di costruzioni di Pat e Goody Petronelli. Lavorava in cantiere. Per tre dollari al giorno tirava su muri, impastava la calce. Nel pomeriggio andava in palestra.
L’esordio da professionista l’aveva fatto contro un certo Terry Ryan, che a Brockton era nato. Quella sera del 18 maggio 1973 la borsa di Marvin era stata di quaranta dollari al netto delle ritenute (manager, allenamento, armadietto). Aveva vinto per ko in due round. Prima sfida importante cinque mesi dopo contro Dornell Wingfall. Una questione personale. Quello gli aveva fatto un occhio nero dopo una lite in discoteca, il sangue gli aveva rovinato la giacca di pelle nera che aveva appena comprato. Aveva vinto ai punti in otto riprese, ma due anni dopo, il 15 febbraio del 1975, lo aveva steso in meno di sei minuti. Marvin Hagler non dimenticava chi lo aveva fatto piangere.
Amava allenarsi in Massachussets. Correva dalla fine di Herring Cove Beach verso ovest. Lontano dalla strada principale, fra le dune di sabbia.
«Quello era il posto dove mi piaceva sognare»
Si allenava su un ring costruito sopra un prato, accanto alla piscina, a pochi passi dall’Oceano.
«Sono un mostro. Non amo i miei avversari. L’unico pensiero che ho nella testa è quello che mi dice di distruggerli, portarli all’inferno e lasciarli bruciare. Ma quando il match è finito sono pronto a stringere la loro mano»
I rivali sapevano bene cosa avesse nella mente.
«Tu lo colpisci e lui si sente felice»

Aveva un’alta soglia del dolore, una grande resistenza alla fatica. Aveva talento, potenza. Niente gli faceva paura. Temeva una sola persona, la mamma. Ida Mae aveva cresciuto da sola i ragazzi, l’aveva fatto tenendo bene in mente un grande insegnamento. Bisognava guadagnarsi la vita conservando la propria dignità. Li aveva messi in guardia. Niente cattive compagnie, niente droghe, niente alcool. E loro le avevano obbedito.
Marvin Hagler era un pugile professionista con due colpe da farsi perdonare. Era nero ed era mancino. Ogni persona sana di mente ed esperta di pugilato sapeva bene quanto fossero maledetti i mancini. Meglio battersi contro pugili che non ti costringevano a combattere contro uno specchio.
Dopo 46 vittorie, due sconfitte e un pari, era arrivato il match per il titolo.
La sfida numero 50, quella contro Vito Antuofermo al Caesars Palace di Las Vegas in programma il 30 novembre 1979.
Hagler aveva 25 anni, faceva il pugile professionista da più di sei.
Quel match lo pareggiava, risultato ingiusto. Aveva vinto. Poi conquistava il titolo contro Alan Minter nel 1980 e restava campione per sette anni e dodici difese.
Questo era Marvin Marvelous Hagler, uno dei migliori pesi medi della storia.

(tratto dal libro MERAVIGLIOSO di Dario Torromeo, Absolutely Free Editore)