Martedì in scena a Roma “L’uragano”, storia di Leone Efrati


Io appartengo all’unica razza
che conosco, quella umana.
(Albert Einstein)

Martedì 28 gennaio, al Teatro Palladium (piazza Benedetto Romano  8, Roma) alle ore 21: L’URAGANO, storia di Leone Efrati, di Antonello Capurso, con Antonello Capurso, Alessandro Cecchini, Micol Pavoncello. Interverranno Romolo Efrati e Cesare Venturini. Consulenza
di Lello Efrati. Disegno luci: Dario De Francesco.

Il sor Emilio girava incuriosito nei locali dell’Audace, in via Frangipane.
Era appena passato davanti ai resti delle mura romane, aveva girato lo sguardo verso sinistra, come faceva sempre quando andava in palestra. Un tempo lì, su quella parete, c’era l’ingresso di un lungo tunnel sotterraneo che portava fino al Colosseo. I gladiatori percorrevano quel cuniculo buio prima di lanciarsi nella battaglia per la vita.
Il sor Emilio faceva un lungo sospiro, poi spingeva la porta che dava accesso al ripostiglio. Lì dentro era pieno di vecchi giornali, fotografie, guantoni ormai inutilizzabili, sedie, raccoglitori rotti. Insomma era così pieno che diventava quasi impossibile entrare. Ma lui aveva visto qualcosa che gli sembrava meritasse la traversata delle cianfrusaglie, come la chiamavano gli audaciani.
Aveva scansato vecchi giornali, fotografie, guantoni ormai inutilizzabili, sedie, raccoglitori rotti e alla fine aveva trovato quello che gli sembrava di avere visto. L’oggetto che aveva scatenato la sua curiosità.
Una vecchia valigetta di cartone pressato. Apriva con delicatezza le due chiusure, aveva paura potessero rompersi, sapeva che andavano trattate con delicatezza. Dentro c’erano un paio di guantoni, un caschetto e le scarpette da combattimento. Tutto marchiato Everlast, la ditta americana.
A chi apparteneva quella valigetta?

Il sor Emilio si trasformava in investigatore, cercava un indizio che potesse aiutarlo a svelare il mistero. Girava e rigirava quell’oggetto tra le mani e alla fine trovava quello che cercava.
Un paio di iniziali. La scrittura era ancora chiara, prima una elle, poi una e: L.E.
Il sor Emilio Lucioli aveva appena scoperto la valigetta (sopra, Romolo Efrati) con cui Leone Efrati era andato all’America, come si diceva all’epoca, cinquant’anni prima.
Tutto questo accadeva molto tempo fa.

Adesso quel prezioso oggetto che scatena infiniti ricordi è tornato a casa,  al Museo della Shoah. Cesare Venturini, che dell’Audace è il papà presidente, ha il gusto della memoria, crede che sia indispensabile ricordare il passato per poter vivere un futuro migliore. Per questo ha donato al Museo il ricordo di un uomo che appartiene a tutti noi, alla tradizione dei pugili italo-ebraici che si sono fatti onore nel mondo.

Leone Efrati era nato a Roma il 26 maggio del 1916, giorni di lotta e dolore. La prima guerra mondiale non dava pace. Bisognava combattere ogni giorno della vita.Era una battaglia molto più pericolosa di quel che potesse essere una scazzottata sul ring.
Lelletto, gli amici lo chiamavano così, era diventato pugile per passione.
Di professione faceva lo stracciarolo, vendeva di tutto trascinandosi dietro la mercanzia su un vecchio carrettino. Quando saliva sul ring, si trasformava.
Così lo descrive in un articolo Massimo Raffaeli sul Manifesto.
“Un ragazzo minuto, ma dal fisico scolpito, di modesta ma compatta massa muscolare: appare corto di gambe ma le sue braccia, più estese in proporzione, fanno pensare a un notevole allungo; la postura che volentieri assume in quelle stesse foto dice che fu probabilmente un insidioso guardia destra”.

Un peso piuma che sapeva farsi rispettare, nel momento migliore aveva raggiunto il numero 10 della NBA, la National Boxing Association nata nel 1921. Una delle prime sigle a gestire il pugilato mondiale. Efrati il titolo l’aveva anche sfiorato dopo aver fatto una
buona carriera in Italia: per due volte si era battuto con Gino Bondavalli.
Poi aveva tentato l’esperienza parigina, infine il grande salto. Era andato all’America e si era portato dietro i ferri del mestiere, in quella valigetta marrone che custodiva quasi fosse una reliquia.
Si era fermato a Chicago, dove aveva combattuto per dodici volte. Una volta era salito sul ring di Milwaukee.

Il 29 dicembre del ’38 aveva affrontato al Coliseum il forte Leo Rodak (foto sopra). Dieci round epici, chiusi sul filo del rasoio. Leone era convinto di avercela fatta, ma i giudici avevano deciso che il vincitore fosse Rodak. Solo a match concluso, la NBA aveva annunciato che quel match valeva per il titolo. Avrebbe potuto restare lì, al sicuro, come gli Stati Uniti gli avevano proposto. Invece, pur di riabbracciare la famiglia, era tornato  in Italia dove da meno di un anno erano in vigore le leggi razziali.

Così, tanto per ricordare.
Le leggi razziali furono emanate nel 1938: esattamente il 14 luglio con la pubblicazione del famoso “Manifesto del razzismo italiano” poi trasformato in decreto, il 15 novembre dello stesso anno, con tanto di firma di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d’Italia e imperatore d’Etiopia “per grazia di Dio e per volontà della nazione”.
Il 25 luglio, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri e il segretario del partito fascista Achille Starace si erano premurati di ricevere “un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane che avevano, sotto l’egida del ministero della cultura popolare, redatto il manifesto che gettava le basi del razzismo fascista”.
Con il manifesto e con le leggi successive, agli ebrei venne proibito, tra l’altro, di prestare servizio militare, esercitare l’ufficio di tutore, essere proprietari di aziende, essere proprietari di terreni e di fabbricati, avere domestici “ariani”. Gli ebrei venivano anche licenziati dalle amministrazioni militari e civili, dagli enti provinciali e comunali, dagli enti parastatali, dalle banche, dalle assicurazioni e dall’insegnamento nelle scuole di qualunque ordine e grado. Infine, i ragazzi ebrei non potevano più essere accolti nelle scuole statali”. (dal Sito A.N.P.I. di Lissone – Sezione “Emilio Diligenti”).
Roma si era trasformata in un inferno per gli ebrei, come del resto lo era l’Italia intera.
La famiglia Efrati aveva dovuto abbandonare la loro abitazione al civico 57 di via Luciano Manara, San Cosimato. Sarebbe stata troppo facilmente rintracciabile, i delatori erano sempre in agguato.
Gli Efrati dormivano nei portoni delle case, cambiavano rifugio ogni notte: Vicolo del Moro, via della Renella, via della Pelliccia. Avevano come compagna la paura. In ogni ombra vedevano un nemico.
Leone, la moglie Ester e i tre figli: Romolo di sei anni, Elio di tre e Letizia di uno si nascondevano, speravano, sognavano.

Una mattina di aprile del ’43, Lelletto era contento, aveva appena fatto un buon affare. Aveva scambiato in piazza San Giovanni quattro uova per una pagnotta nera. Guardava il figlio negli occhi e decideva che era tempo di festeggiare.
“Romolè, annamo in gelateria”.
Appena usciti, avevano incrociato due  uomini in borghese, due brutti figuri che gli si erano parati davanti.
“Efrati, non muoverti. Non fare cose di cui potresti pentirti.”
Avevano mostrato una rivoltella.
All’epoca, quattro bande di delatori si dividevano Roma.
Li avrebbero venduti: diecimila lire per l’adulto, tremila per il bambino.

Li avevano portati in via Tasso.
I tedeschi avevano chiamato quei due per nome e loro avevano dato un’agghiacciante risposta.
“Uno grande, uno piccolo”.
Appena saliti al piano superiore, gli Efrati avevano visto su una scrivania l’orologio di zio Marco,
“Romolè, non addabbberare, nun risponne a nessuna domanda”, Lelletto aveva capito.
“Ragazzi, dove abiti? Dai, che te portamo da mamma” uno dei delatori ci aveva provato. Romolo era rimasto in silenzio.
Li avevano trasferiti al terzo braccio del carcere di Regina Coeli, dove sarebbero rimasti per tre settimane.
La mattina  del 20 maggio 1943 li avevano fatti salire su un camion per trasportarli a Fossoli.
Romolo non avrebbe mai dimenticato quella data, il giorno dopo avrebbe compiuto sei anni.
Sul camion, assieme a Lelletto e Romolo, c’erano zio Marco e nonno Aronne.
Maurizio Molinari e Amedeo Guerrazzi Osti raccontano questo episodio nel loro libro “Duello nel ghetto”.
Un uomo coraggioso e di animo buono, Pacifico Di Consiglio detto “Moretto”, aveva aiutato il piccolo Romolo a calarsi di nascosto dal camion e scappare. Il bambino aveva corso disperato, poi aveva girovagato per Trastevere fino a ricongiungersi con il resto della famiglia.
“Che ce dovevo fa coì ‘sto ragazzino? E quanno ce arriva in Germania…”
Gli altri passeggeri del camion si erano guardati in faccia e avevano deciso. Si erano passati quel giovane corpo esile di mano in mano, l’avevano fatto scendere vicino San Pietro. Lui era saltato veloce su una botticella ed era scappato in direzione Ponte Sisto. Aveva corso fino a togliersi il fiato sino a quando non era arrivato a Piazza Trilussa, li aveva incontrato mamma Ester.
Leone Efrati era stato invece deportato nel campo di concentramento di Ebensee, sotto la giurisdizione di Auschwitz Birkenau. Il campo dove la percentuale di morte tra i prigionieri era più alta che da qualsiasi altra parte.
I tedeschi sapevano che Leone era un pugile, a loro piaceva vederlo combattere. Così, per divertirsi e scommettere, lo mettevano su un ring quasi ogni giorno contro uomini molto più pesanti di lui. La posta in palio era incredibilmente alta. Se vincevi, rimediavi una zuppa di pane e andavi avanti. Se perdevi, quasi sempre finivi in un forno crematorio.

Valerio Piccioni ha scritto un commovente articolo sul La Gazzetta dello Sport, in quelle righe c’è la testimonianza di Alberto Sed: anche lui ad Auschwitz assieme ad Efrati.
“I tedeschi lo conoscevano, hai voglia se lo conoscevano. Era il pugile ideale per le scommesse. Un grande peso piuma/leggero vicino ai 59 chili contro un bel peso medio che di chili ne faceva 75. E giù soldi, tanti soldi. Non c’era il ring, solo un piazzale e loro che urlavano, si divertivano, giocavano. Sempre di domenica, quando non si lavorava. Noi assistevamo, ma con che spirito, con che spirito vede un incontro di boxe uno che non sa che fine hanno fatto sua madre e sua sorella? (…) Efrati si faceva onore, ma poi un giorno finì tutto. C’era anche suo fratello al campo. E lui tornando nel blocco aveva saputo che era stato picchiato a sangue da alcuni kapò. “Chi è stato, chi te l’ha date?”. Si era rifatto e loro, dopo aver preso tutte ‘ste botte, avevano avverito un soldato tedesco. Qualche ora dopo l’avevano tramortito, lo avevano lasciato a terra moribondo. Ogni sera le SS, davanti al blocco, ti strattonavano per vedere se stavi in piedi: chi cadeva per terra non aveva scampo, e lui non era riuscito neanche ad alzarsi. È stato così che Lelletto è finito nei forni crematori”.
Nessuno su quel ring che non era un ring, in quei match che non erano match, era riuscito a battere il pugile romano. Centoquattro incontri in un anno, due a settimana. Centoquattro vittorie per ko, perché il match si fermava solo quando uno dei due non poteva più rialzarsi. Lui, piuma/leggero attorno ai 59 chili, contro gente che superava i 75 chili. Non lo avevano mai sconfitto.
Aveva resistito finché aveva potuto, per metterlo ko gli erano andati contro in quattro.
Era il 16 aprile del 1944, Leone Lelletto Efrati aveva 28 anni.

L’anno dopo a Roma si era celebrato un processo, sul banco degli imputati i due delatori che avevano consegnato Leone e Romolo alle SS. I due sorridevano, erano tranquilli, certi che non ci fossero testimoni pronti a riconoscerli. Ci avevano pensato i campi di sterminio a eliminarli.
Uno però era scampato all’Olocausto, era un bambino di sette anni.
“L’avvocato difensore mi faceva delle domande usando un linguaggio complicato che io non capivo. Loro ridevano. Allora il pubblico ministero ha chiesto al giudice se potesse aiutarmi. Ricevuto il permesso, mi ha tradotto in giudaico romanesco le domande. E quando mi hanno chiesto se riconoscessi i due che ci avevano messi nelle mani dei tedeschi, non ho avuto dubbi. Uno di loro aveva anche un braccio di legno. Sì li riconosco, ho detto. Sono lui e lui. La coppia di delatori a quel punto ha smesso di ridere”
A parlare è Romolo Efrati, che oggi ha 83 anni e vive in Israele.

Domani a Roma va in scena  la storia di Leone Lelletto Efrati.
Il pugile che gli amici chiamavano URAGANO… 

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