Era il 27 settembre 1980, trentanove anni fa. Finalmente Marvin Hagler
si prendeva quello che era suo, il titolo mondiale dei pesi medi.
Accadeva in uno degli scenari più scandalosi della storia del pugilato.
Dopo la notte di Bellaria avevo sempre provato antipatia per l’inglese dagli occhi di ghiaccio. Mi era sembrato lontano dalla sofferenza della famiglia Jacopucci. Pensavo così perché non lo conoscevo. Quell’incubo non l’aveva mai abbandonato. E si era ripresentato, spietato, proprio alla vigilia della sfida contro Marvin Hagler.
A sconvolgerlo di nuovo era stato il dramma di Johnny Owen, il peso gallo inglese ancora in coma dopo l’agghiacciante knock out subito contro Guadalupe Pintor nel mondiale. Alan Minter e Johnny Owen non erano legati da una forte amicizia, del resto Minter di amici ne aveva davvero pochi. Non c’era dunque amicizia, ma quel ragazzo faceva il suo stesso mestiere. E adesso rischiava di morire proprio per un “incidente sul lavoro”.
La gente amava Minter come aveva amato pochi altri campioni prima di lui. E Alan si sentiva in dovere di ripagare tutto quell’amore.
Alla vigilia della sfida con Hagler non era tranquillo. Sul ring avrebbe trovato uno che aveva fame di gloria, successo, soldi. Uno che si sentiva un perseguitato. Dal mondo del pugilato, dai giornalisti, dagli uomini.
«Stavolta mi sono portato due giudici da casa», scherzava, ma non troppo, Marvin Hagler mostrando le mani chiuse a pugno. Il ricordo della sfida di Las Vegas contro Vito Antuofermo era ancora forte. E faceva male.
Ad ascoltare le lamentele contro il mondo intero, quella volta a Londra c’era anche Steve Wainwright di Boston, il suo avvocato, uno dei soci dello studio Wainwright, Wainwright, Wainwright, Wainwright & Wainwright (famiglia numerosa, poca fantasia nella scelta del nome dello studio legale). La sera del match ci sarebbe stato anche lui all’angolo. Da tifoso, non certo da avvocato. Si era lasciato andare a una folle promessa: se Marvin avesse vinto il titolo, si sarebbe rasato a zero come il suo cliente/amico pugile.
C’era una brutta atmosfera quel sabato 27 settembre del 1980 alla Wembley Arena. In platea tanti rappresentanti del Fronte Nazionale, un gruppo xenofobo di destra.
Sulle tribune, centinaia di skinheads, teste rasate, sottoproletari arrabbiati. Casse di birra circolavano senza limitazioni.
Il mondiale dei pesi medi era stato una sfida selvaggia.
Un insolito confronto tra due mancini. Alan Minter era stato tradito dalla sua stessa ferocia che gli si era rivolta contro. Negli occhi del campione c’era brutalità pura, non stava fingendo. Si sentiva davvero il killer della boxe. Non avrebbe concesso ad Hagler neppure il tempo di organizzarsi. Voleva fare tutto in fretta, senza portarsi dietro neppure un ricordo di quella sfida. Non voleva complicarsi la vita perdendo tempo a pensare. Doveva solo agire. E doveva farlo in fretta. E con questo solo pensiero nella testa aveva lanciato l’ attacco. Violento, spietato. Si era esposto ai colpi lucidi del rivale. La superiorità di Minter era durata appena un round. Ancora più velocemente era maturata la disfatta.
Un destro di Hagler gli aveva lacerato lo zigomo, un altro gli aveva devastato l’occhio sinistro. In tre round era già tutto finito. Alan aveva ancora dentro ferocia, rabbia, voglia di distruggere. Ma non aveva più i mezzi tecnici e fisici per portare avanti il suo piano. Aveva la faccia devastata, lo teneva in piedi solo l’orgoglio. La gente inferocita, aveva aumentato secondo dopo secondo la brutalità del loro comportamento. Ogni colpo di Minter era accompagnato da un’ovazione, ogni attacco era seguito dagli applausi.
E adesso che neppure il mago delle ferite venuto dagli States riusciva a tamponare il sangue, ora che l’arbitro panamense Berrocal d’accordo con il medico diceva che poteva bastare, la gente travolta dall’ira lasciava da parte ogni briciolo di umanità e si trasformava in mandria impazzita, bestie che lanciavano sul ring ogni cosa avessero tra le mani. Bottiglie di birra ancora piene, armi pericolose. Per frenare la follia dei vandali, chi gestiva l’arena aveva anche provato ad abbassare le luci. Ma la penombra anziché placare, aveva dato maggiore forza ai delinquenti che nel buio si sentivano a loro agio. Erano dei vigliacchi che colpivano senza rischiare.
Il sangue che usciva dal lato sinistro del volto di Alan Minter, la furia di Marvin Hagler che sentiva il titolo mondiale vicino come non lo era mai stato. L’arbitro Carlos Berrocal che sanciva la fine, l’americano che si inginocchiava per ringraziare il cielo che l’aveva aiutato.
Ecco, quello era stato il momento in cui un’arena di pugilato si era trasformata in un inferno popolato da belve.
Violenza, delirio, follia. Bottiglie ancora piene di birra volavano sul ring, si schiantavano al suolo, una pioggia di vetri invadeva l’intera zona. I fratelli Petronelli alzavano e braccia sul corpo del loro pugile per proteggerlo.
Lo portavano via di corsa aiutati da alcuni bobby, armati solo del loro coraggio. Una folla ubriaca e senza il minimo freno rischiava di travolgere ogni cosa.
“Una vergogna e una disgrazia per il pugilato britannico” diceva il telecronista Harry Carpenter, che commentava il match per la BBC. Una bottiglia di birra lo aveva centrato sulla spalla destra.
Vito Antuofermo, che era lì per la Rai, veniva colpito alla nuca da un’altra bottiglia. Si girava, individuava lo skinhead che aveva lanciato la birra e lo centrava con un destro devastante. Knock out, senza bisogno che un arbitro dovesse intervenire per certificarlo. Il pelato aveva sbagliato posto e obiettivo.
Per tornare a sorridere, Marvin Hagler aveva dovuto aspettare che una pattuglia di poliziotti lo scortasse sino al Bailey’s, l’albergo dove alloggiava. Con lui Ida Mae, la mamma; Wilbur, il patrigno.
L’avvocato Wainwright era pronto a pagare la sua scommessa. Si sarebbe fatto rapare a zero ed a farlo sarebbe stata Bertha, la moglie di Marvin.
«Sapevo che avrei vinto io, ma non avrei mai immaginato che sarebbe stato così facile. Vi siete convinti che ho, quando è necessario, il giusto coraggio? C’è gente che non capisce niente. Come può un fuoriclasse come me, non avere coraggio? Sono gli altri che devono avere paura di Marvin Hagler. Campioni come me ne nascono pochi. La folla? Bestie, selvaggi».
Minter, il volto ancora deturpato dai colpi del nuovo campione, commentava con serena autocritica la sconfitta.
«Ricordo la gente, le urla disumane, una folla che non voleva accettare la mia sconfitta. Non ricordo altro, neppure i colpi di Hagler. Ho sentito il sangue colarmi giù, inondarmi il volto, impedirmi di vedere. Ho avuto difficoltà a respirare, mi sono chiesto: ma cosa è mai successo? Se, in quel momento, mi avessero detto che Hagler mi aveva colpito, non ci avrei creduto. Ho dovuto crederci quando tutto era finito. Mi dispiace aver perso il mondiale, non potrò mai perdonarmi di averlo perso in un modo così stupido. L’ho regalato ad un rivale che aveva già tutte le possibilità per conquistarlo con la sua bravura»
Era stata una notte di paura, ma aveva consegnato un mondiale prestigioso come quello dei pesi medi all’unico vero fuoriclasse che la categoria potesse presentare in quei giorni.
Hagler in una parola
IMMENSO.
DOVUNQUE TU SIA ADESSO
MI MANCA IL TUO PUGILATO
TI VOGLIO BENE