Era il 18 luglio del 1918, Nelson Rolihlahla Mandela nasceva a Mvezo in Sudafrica. Morirà il 5 dicembre 2013 a Houghton. Nel suo ultimo processo, pronunciò un’arringa di quattro ore conclusa con queste parole: “Ho nutrito l’ideale di una società libera e democratica, in cui tutte le persone vivessero insieme in armonia. Questo è l’ideale per cui vivo, spero di realizzarlo. Ma se fosse necessario, diventerà l’ideale per il quale sono pronto a morire”.
Nelson Mandela è morto a 95 anni. Dell’enorme peso politico e sociale di quest’uomo avrete letto e leggere da altre parti. Qui voglio ricordare il suo strettissimo legame con lo sport.
Ha sempre creduto oltre misura in questa attività dell’uomo.
“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo.”
Era una delle frasi preferite. E anche se non credo sia vero, o almeno non lo sia in assoluto, è un’espressione che mi ha sempre fatto piacere sulle labbra di uno spirito libero.
È stato per ventisette anni prigioniero, pena ridotta rispetto alla condanna all’ergastolo per atti di sabotaggio.
In carcere il pugilato lo ha aiutato ad andare avanti. L’ha amato fin da ragazzo, quando andava ad allenarsi in una piccola palestra di Soweto. Ha boxato da dilettante, un peso medio che preferiva la tecnica alla bagarre. Uno che aveva colto l’essenza di questa disciplina.
“Amo la scienza del pugilato: la strategia di attaccare e indietreggiare allo stesso tempo. La boxe significa uguaglianza. Sul ring il colore, l’età e la ricchezza non contano nulla. Ma più che il combattimento, a me piace l’allenamento regolare e costante, l’esercizio fisico che la mattina dopo ti fa sentire fresco e rinvigorito.”
Si preparava dal lunedì al giovedì, aveva continuato a farlo anche in prigione. Diceva che l’aiutava a stemperare il dolore per la libertà negata.
“La boxe è un modo per perdermi in qualcosa di diverso dalla lotta politica” aveva scritto nell’ultimo libro “Conversazioni con me stesso”.
È stata una passiona durata tutta la vita. Uscito dal carcere ha continuato a coltivarla quanto l’età potesse permettergli.
Ha incontrato campioni famosi. È stato affascinato da Muhammad Ali, al punto da conservare nell’ufficio da primo presidente nero del Sudafrica i guantoni avuti in regalo dal più grande. Ha parlato a lungo e in privato con Sugar Ray Leonard che gli ha donato una delle sue cinture mondiali. Anche questa è andata ad aggiungersi ai cimeli a cui teneva di più. I fuoriclasse facevano la fila per una foto al suo fianco. Le potete vedere in giro su Internet. C’è quella con Leonnox Lewis o Marvin Hagler tra le più famose. Ci sono gli incontri, commoventi, con Joe Frazier e tanti altri campioni.
Madiba, come lo chiamavano affettuosamente un po’ tutti, aveva capito la grande influenza che lo sport aveva sull’uomo. E l’aveva usato come terapia, una medicina per curare la depressione e l’isolamento.
Per quattro anni aveva chiesto ai suoi custodi di poter mettere in piedi una squadra di calcio, anzi come diremmo in Italia di calcetto. Cinque detenuti, tutti neri e poco più che ventenni, condannati a spaccare pietre per 75 anni.
Permesso più volte negato. Così la piccola squadra si era dovuta accontentare di giocare in silenzio all’interno delle celle trasformando in pallone alcuni fogli di carta arrotolati. Poi era arrivato il sì del direttore e finalmente, nell’ora d’aria, era nata la Macana Football Association. La squadra dei detenuti che aveva appreso regole e istruzioni dal libro della Fifa chiesto in prestito alla Biblioteca carceraria.
Per sessanta minuti al giorno tornavano a sentirsi liberi.
Lo sport per Mandela è stato anche e soprattutto il rugby. La foto all’Ellis Park con la maglia numero 6 regalatagli dal capitano degli Springbok Jacobus Francois Pienaar è diventata famosa almeno quanto la foto di Ali che sbeffeggia Liston finito al tappeto sul ring di Lewiston.
Come aveva più volte ricordato agli affiliati dell’African National Congress “Non ci può essere sport normale in una società anomala.” E solo quando il mondo aveva visto lui, nero, al centro di una nazionale composta quasi esclusivamente da bianchi aveva capito che finalmente un passo importante era stato compiuto sul cammino dell’integrazione razziale. Quattordici bianchi e un nero, Chester Williams. Con Nelson Mandela al centro. Un piccolo passo per il rugby, un grande passo per l’umanità.
Sono volati in Sudafrica solo per stringergli la mano John McEnroe (“Quando mi ha detto che ero un simbolo per lui, ho capito che la mia vita non era stata del tutto inutile”), Ruud Gullit, Lilian Thuram e cento altri ancora.
E quando nel 2010 nel giorno della chiusura del primo mondiale di calcio disputato in terra africana (la cerimonia di apertura si era svolta, guarda caso, l’11 giugno: esattamente quarantasei anni dopo la condanna all’ergastolo di Mandela e dei suoi sette compagni di lotta) ha attraversato lo stadio su una piccola macchina elettrica, mostrando senza paura e con molto orgoglio il suo corpo già devastato dalla malattia, a molti è venuto in mente quel 19 luglio del 1996 quando Muhammad Ali con mano tremante aveva acceso il tripode dell’Olimpiade di Atlanta.
Quel ricordo riportata prepotentemente la boxe nella vita di Madiba.
“Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso” amava ripetere.
È il motto che sintetizza meglio la vita di un Premio Nobel per la Pace, di un uomo che ha trovato anche nello sport la forza per non arrendersi mai.