Roma, venerdì 10 gennaio 2014
Teo se ne è andato via per sempre.
Era un giornalista, nel senso più pieno del termine. Si è occupato di tennis, sport che aveva praticato da amatore con buoni risultati. E aveva continuato a farlo fino a quando gambe e cuore glielo avevano permesso. Piccolo, esile, correva da una parte all’altra del campo non concedendo tempi di recupero all’avversario. Innervosiva ogni rivale con malinconici e snervanti pallonetti. E se l’altro provava a forzare, lui andava a recuperare la pallina anche negli angoli più lontani del campo. Non era certo un campione, ma amava la competizione, l’agonismo. E anche nello sport, come nel lavoro, metteva dentro ogni risorsa fosse in suo possesso.
Dopo una lunga e straziante malattia, si è arreso. Ricordo la tristezza delle ultime visite, l’angoscia che mi prendeva quando uscivo dall’ospedale. Lo vedevo steso sul letto, ricoperto di fili, accanto a macchinari che lo tenevano attaccato alla vita. Aveva la pelle macchiata dalla malattia, ematomi lungo tutto il corpo. Era magro, gli erano rimaste le ossa e poco più, soffriva di qualche momento di abbandono totale. Ma quando apriva gli occhi e tornava per brevi momenti cosciente, mi sorrideva. Non mi risparmiava una battuta. Come aveva sempre fatto.

Amava il tennis. Ma la grande passione era la boxe.
Aaveva girato il mondo per Il Messaggero, aveva scritto pezzi importanti per Boxe Ring quando direttore della rivista era Roberto Fazi, aveva collaborato con la Rai.
Era una rarità. Uno dei pochi giornalisti che il pugilato l’aveva fatto. Aveva indossato i guantoni, era salito su un ring e si era battuto. Per carità, pochi incontri da dilettante, senza raccogliere risultati importanti. Quando volevamo prenderlo in giro, tiravamo fuori dal cilindro le parole di Giuseppe Ballarati. Raccontavamo come l’uomo che aveva inventato la Bibbia del Pugilato lo chiamasse la lepre del ring, ripetevamo all’infinito una storia inventata chissà da chi, e lui fingeva di arrabbiarsi.
Pochi match, abbastanza comunque per fargli capire che quello era uno sport da amare. La boxe la conosceva da dentro. Quando sedevamo vicini a bordo ring, non c’era collega che non lo chiamasse per sapere quale fosse il suo cartellino. Gli chiedevamo un giudizio per capire se fossimo sulla giusta strada, per catturare la vera chiave di lettura del match.
La sua forza non era nello stile della narrazione, non sono qui a inventarmi una realtà che non esiste per il solo fatto che racconto memorie di un amico che non c’è più. Erano altre le armi in suo possesso. Aveva un dono, sapeva sempre come arrivare al nocciolo della questione. Entrava a piedi pari sulla notizia, la faceva sua, la raccontava ai lettori attraverso le risposte alle cinque domande che un bravo giornalista dovrebbe sempre porsi. Un vecchio credo che oggi sembra essere spesso diventato fuori moda: chi, come, dove, quando e perché.
Voleva sapere, non si accontentava della prima spiegazione.

Con ironia buttava giù ogni muro di indifferenza.
Indagava fino a quando non arrivava al cuore del fatto che poi avrebbe raccontato ai suoi lettori.
Aveva la battuta pronta, alcune hanno fatto epoca all’interno del mondo del giornalismo, un universo da sempre restio a lodare gli altri.
Teo (nella foto sopra è il primo in piedi a sinistra, il coach, il maestro della squadra di colleghi e gente del pugilato) era amico di tutti, anche se quasi tutti nel tempo si erano dimenticati di lui. Come spesso accade. Quando sei in cima hai la fila di persone che ti danno pacche sulle spalle, ti dicono quanto sei bravo, ti chiamano ogni giorno. Poi invecchi, vai in pensione, ti ammali, te ne stai sdraiato su un letto di ospedale ogni ora della tua giornata a guardare quel soffitto bianco, e tutti si scordano di te. Non è sempre così, ma se tocca a qualcuno a cui vuoi bene ti sembra che l’offesa sia imperdonabile.

Teo era uno che sapeva come si porta un diretto (ma anche un dritto, o anche un rovescio...), come tirare un gancio, come avventurarsi sulla strada pericolosa del montante. Sapeva leggere negli occhi di un pugile, capire in anticipo dove avrebbe incontrato la paura e dove avrebbe trovato il coraggio.
E scriveva sempre quello che vedeva, quello che sapeva, anche a costo di farsi un nemico in più, anche a rischio di beccarsi una querela. Qualcuno gliel’ha anche fatta. Ma ha sempre perso, perché contro la verità si può solo perdere.
Assieme a lui ho vissuto momenti di incredibile buonumore, risate senza freni. Di gioia pura. Sia che fossimo in quel Luna Park per adulti che è Las Vegas, che ci muovessimo nella grigia e pericolosa Detroit. Abbiamo riso a Catanzaro, Vibo Valentia, Voghera, New York, Miami, San Juan de Portorico, Londra, Capo d’Orlando e Parigi. Ovunque ci portasse il nostro meraviglioso lavoro.
Ci siamo divertiti, ma ci siamo anche persi in ogni posto del mondo. Fosse Treviso o Barcellona, per noi non faceva differenza. Avevamo un senso dell’orientamento pari a zero, capaci di non ritrovare la giusta via anche dentro i pochi metri quadri di casa nostra. E ogni volta che accadeva, via a ridere, con gli altri che subito cominciavano a guardarci in modo strano.
Mordecai Richler, lo scrittore canadese che ci ha regalato La versione di Barney, scrive : “Ci vogliono settantadue muscoli per fare il broncio, ma solo dodici per sorridere. Provaci per una volta.”
L’antica malattia che porta a confondere il serio con il serioso è un morbo che trova terreno fertile nel giornalismo, nei giornalisti dalla battuta a ogni costo, che sia scontata o ingiuriosa poco importa.
Lui non era così, aveva il tempo giusto per la stoccata.
Diceva Sugar Ray Robinson: “Il ritmo è tutto nella boxe. Ogni tuo movimento inizia con il cuore.”
E lui il ritmo ce l’aveva naturale.
Era romano sino in fondo al cuore. Non solo perché tifava Roma, ma anche e soprattutto perché aveva una qualità che aiuta a vivere. L’ironia sempre pronta, una maniglia a cui aggrapparsi quando il mondo sembra rotolarti addosso.
Sdrammatizzava le situazioni più intricate, si lanciava come un cane da caccia quando annusava una notizia. Non si stancava mai di andarla a stanare. E, cosa che gli ho a lungo invidiato, godeva del rispetto dei pugili. Si rivolgevano a lui con una domanda che per tanti anni ho sperato facessero anche a me.
“Come sono andato?”
Chiedevano un giudizio. Perché lo sapevano esperto, perché lo sapevano sincero.
Non troverete citazioni da intellettuale nei suoi pezzi, né sofisticati riferimenti letterari. Ma andando a rileggere quegli articoli scoprirete la boxe, la vita.
Gli ho voluto bene, gliene vorrò per sempre. È stato un compagno di avventura, un amico, un giornalista a cui chiedere consiglio. Altra rarità nel nostro mondo.
Da troppo tempo Teo non c’è più. La boxe ha perso un altro pezzo importante della sua storia e io ho perso una persona con cui ho diviso almeno tre decenni della mia vita.
Non aveva difetti?
Volete scherzare! Ne aveva in quantità industriale.
Sento ancora nelle orecchie le sue implacabili cento domande, una dietro l’altra. Un martello che picchiava sulla mia testa, non si fermava sino a quando non gli davo una risposta. Dovevo interrompere un’intervista importante, smettere di parlare, chiunque fosse l’interlocutore, non guardare un match a cui tenevo. Lui pretendeva attenzione.
A volte mi veniva voglia di mandarlo a quel paese. Ma poi mi guardava con quell’espressione da finto ingenuo, mi chiedeva perché mi infuriassi tanto. E allora gli perdonavo tutto.
Con lui accanto mi sono spesso sentito nel ruolo di uno dei due protagonisti della “Strana coppia”. Walter Matthau o Jack Lemmon? Non fa differenza, i ruoli erano interscambiabili.
Mi piace citare due aforismi.
Il primo credo sia di Oscar Wilde: “Un amico è qualcuno che ti conosce molto bene e, nonostante questo, continua a frequentarti“.
L’altro è di Stephen Littleword, ricercatore sul miglioramento della qualità della vita: “Un amico vero lo riconosci subito, ti fa scoppiare a ridere anche quando proprio non lo vuoi, se ti domanda come stai dissolve anche il più triste pensiero e basta stare in sua compagnia per sentirsi speciali. Questo è un vero amico, colui che trasforma la tua vita, in una vita speciale!”
E lui era proprio così.
Teodoro Teo Betti, quando se ne è andato per sempre, aveva 83 anni, una moglie: Luisa, due figli: Lauretta ed Edo.
Riposa in pace amico mio.


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