
STORIE
Ottava puntata. Qualche anno fa sono stato in un luogo che conserva intatta la magia di una boxe antica. La Casa di Carta è al civico 88 di via Chiavica Romea, a Ravenna. È la palestra di Meo Gordini.
La Romagna è davvero la mamma di tutte le rotonde del mondo. Le piazza qui e lì. E quando ne avanza qualcuna, piuttosto che buttarla via spezza in due un drittone di cento metri. Vengo in macchina da Cervia, sto guidando verso la Casa di Carta, ma non riesco a tirare dritto per più trenta secondi.
Parcheggio di fronte al civico 88 della via Chiavica Romea. Dall’altra parte della strada c’è il Centro Sociale. La Casa di Carta è subito dopo, sulla destra. Cammino lungo il vialetto, giro a destra, salgo un paio di gradini. La porta è aperta, entro.
E sbatto la faccia sul ring, è a meno di un metro dall’ingresso.
C’è vita qui dentro. I ragazzi hanno i volti scavati dalla fatica, ma sono felici. Hanno occhi che sorridono. E io mi sento a casa.
La stanchezza non esiste. È solo un’invenzione dell’uomo per giustificare la rinuncia alla realizzazione dei propri sogni. Essere stanchi significa essere privi di una forte motivazione.
Una figliola dai capelli turchini si muove con eleganza, sembra che danzi. Se ne sta in fondo alla sala, fa un po’ di vuoto. Ci mette impegno, bene così.
Il ciuffo biondo di un ragazzo dal fisico possente fluttua nell’aria mentre lui è al sacco. Picchia come se non ci fosse un domani.
La palestra è piena di rumori, energia. Una moretta con una nuvola di capelli ricci è impegnata in una seduta di sparring contro un peperino scatenato. La ragazza, giovane e audace, non si ferma un momento. Entra ed esce dalla guardia della riccia che però, attenta e precisa, riesce a mettere a segno i suoi colpi. È una seduta intensa, avvincente, fatta di impegno e sudore.
In piedi, all’angolo tra il muro e la porta, una signora guarda la scena.
Presto gli uomini scompariranno e il mondo sarà delle donne.
Il suono inconfondibile della voce annuncia l’arrivo di Meo Gordini.
Spero proprio che qualcuno rimanga.
Replica la signora.
Alcuni pugili aspettano, impazienti, di essere messi alla prova.
Si aprono le danze.
Via con le gambe.
Sinistro, sinistro, gira.
Uno, due, via, via, via.
Sinistro, muovi le gambe, gira, gira.
Meo salta come un grillo sul tappeto.
È giornata di sparring, la sala è piena.
Fanno il sacco, un po’ di vuoto, qualche esercizio di stretching, provano con la palla veloce. Si muovono frenetici, ma dentro la testa hanno un unico obiettivo. Non si sentiranno appagati finché non saranno tra le dodici corde, solo lì capiranno se sono pronti o dovranno invece ripetere una lezione già studiata tante volte.
Le mura della palestra sono ricoperte di fogli con su scritte parole che potrebbero accompagnarci nella vita, rendendola addirittura meno difficile.
Ci sono molte frasi di Meo. Un uomo che ha avuto una vita intensa, piena di problemi. Cerca di trasmettere emozioni a chi arriva in questo tempio del sacrificio.
È la Casa di Carta.
La democrazia non si misura dalla forza della maggioranza, ma dalle libertà e dai diritti delle minoranze.
Mi piace sentirmi cullato da questa passione che avvolge ogni cosa. Non so, e sono certo di non essere il solo, cosa si provi nel pancione della mamma. Ma deve essere qualcosa di assai simile alla sensazione che sto provando ora.
Quando fa il pieno, Meo riesce a mettere assieme fino a trentacinque tra pugili e
amatori. Come riescano a starci, è un mistero.
La porta della palestra è sempre aperta.
Non l’ho mai chiusa in faccia a nessuno, perché se chiudi la porta in faccia a un giovane non sai quale porta si possa aprire dopo.
Sorride, poi si fa nuovamente serio.
Io la chiamo la piccola Lampedusa, perché il disagio è una sfida. Loro ringraziano me, quando invece sarei io che dovrei ringraziare loro. Vengo qui e ogni giorno vivo nuove emozioni, mi carico. La felicità è uno stato d’animo. Quando la trovi diventa uno scudo perfetto che ti aiuta ad affrontare la vita. Mi dicevano: ma dove vai? Lì non entreranno neppure i topi, ne avranno paura. E invece eccoci qui a fare il pieno di umanità. La vita è un mestiere che va imparato, i ragazzi ti insegnano
come fare. Io cerco di dare quello che ho. Spiego che il talento è la loro anima. Brucia il talento, brucia l’anima. Questa non è certo la scuola dell’obbligo. Qui vieni per tua scelta, devi farlo essendo consapevole che in palestra non pratichi uno sport qualunque. È il più bello del mondo perché è il più difficile, il più impegnativo.
Non c’è musica in palestra, l’unico ritmo da seguire è quello dei colpi al sacco, alla palla veloce. Quello dei colpi scambiati sul ring, dei piedi che sfregano sul tappeto, del respiro affannoso dopo un’azione prolungata.
Le urla del maestro riempiono l’aria.
Guardo gli occhi emozionati degli allievi, sono in attesa del commento che potrebbe cambiare il loro pomeriggio di fatica.
Meo è il pifferaio magico che conduce tutti nella sua tana. Lui suona e gli altri lo seguono. Urla, è vero. Ma sono grida liberatorie, suggerimenti. Cerca un contatto, gli basta che le parole colgano l’attimo, percorrano la giusta via nella mente dell’allievo. Vuole ripulire la scena da qualsiasi possibile incomprensione.
Un cartello.
La cultura popolare è la molla di tutte le culture.
Un altro ancora.
Ciò che sta al di là della siepe fa più paura perché non lo conosciamo, per questo vale la pena di conoscere tutto, di affrontarlo e sconfiggerlo sino in fondo.
Il maestro poggia le braccia sulla corda più alta del ring, guarda Matteo impegnato in una seduta di sparring. Meo sembra cittadino di un mondo che solo lui conosce, di rumori che solo lui riesce a sentire. Poi, appena l’orologio a muro dà il segnale di fine ripresa, salta tra le corde. Prende lo sparring, mima il gesto come vorrebbe che Matteo lo eseguisse. Il campione ha la faccia sudata, la maglietta bagnata dalla fatica, il casco calato a protezione di sopracciglia e mento. Guarda il coach, fa cenno di sì con la testa. Solo a quel punto il maestro si ritiene soddisfatto, placa la frenesia, regala un ultimo consiglio ed esce dal ring.
Ha una voce musicale. Le parole si arrotolano su sé stesse, il tono diventa rauco per poi ammorbidirsi nella festosità del dialetto. Vocali allungate o chiuse, altre che si trasformano in un dittongo.
Fuori dalla palestra viviamo un’affollata solitudine.
Parla veloce, sembra che le parole abbiano fretta di uscirgli dalla bocca. Non riesce mai a stare fermo, neppure nella mimica facciale.
Schiva a destra, gancio montante gancio, rotazione e passo indietro. Schiva il suo sinistro, montante al fegato, un passo indietro e diretto destro a tutto braccio. Pressalo, pressalo. Tagliagli la strada, poi montante destro, gancio sinistro.
Consigli quotidiani che accompagnano la fatica.
Io dico: vieni nella mia palestra, se non diventi un pugile puoi diventare un uomo. Non amo quei supermercati per amatori. Lì puoi fare tutto, comprare tutto. Anche gli integratori. La boxe è dura, difficile, spietata. Ci vogliono gli strumenti giusti per farla, gambe e cervello. E soprattutto la piena consapevolezza di come una sola seduta di allenamento persa possa compromettere un’intera preparazione.
È un integralista. Sì, anche un po’ filosofo, ma soprattutto integralista.
Nasce a Cotignola nel 1947, appena dopo la fine della guerra. Una tragedia che il paesone romagnolo ha vissuto per intero. Dopo Cassino, è stato il posto che ha subito più bombardamenti.
Papà Michele era un ciclista professionista di tutto rispetto, con Tour e Giri d’Italia nel suo curriculum. Messa via la bicicletta, è tornato a Cotignola e ha conosciuto una bella ragazza. Si sono innamorati al primo sguardo.
Lei lo guardava negli occhi e gli lasciava un tatuaggio nel cuore.
La figliola era minorenne, aveva diciannove anni. Lui quindici di più. Volevano sposarsi, i genitori di lei non erano della stessa idea. Un vedovo con tanti figli da sfamare, non era davvero un bel partito. Negavano la firma. I due scappavano di casa senza dire niente. Andavano incontro al destino, per scelta non per imposizione.
Prima di morire, Michele radunava attorno al letto la famiglia. Poi chiamava il prete. Solo allora accettava l’idea di andarsene via per sempre.
Aveva settantaquattro anni.
Meo ne aveva 23 e stava attraversando la vita camminando su un filo sottile sospeso nell’aria. E sotto non c’era una rete a proteggerlo.
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