
STORIE
È il secondo racconto di una nuova serie. Ancora un viaggio, stavolta datato 25 marzo 1995. A Plainfield, nell’Indiana, per la scarcerazione di Mike Tyson dopo 1095 giorni di detenzione.
In taxi verso il buio, del cielo e dell’anima.
Quindici miglia senza mai cambiare direzione lungo la Washington Street che diventa Interstate 40 non appena usciamo dalla città. Indianapolis è alle nostre spalle.
Fabbriche, desolazione, campi da basket, una Chiesa Battista.
Attraverso la piatta provincia americana e mi sembra che sia priva di colori, uno spettacolo in bianco e nero. Il taxi supera la deviazione che porta all’Aeroporto Internazionale, ancora cinque miglia e giriamo in Morgan Street.

Il Plainfield Youth Center, il carcere di media sicurezza che ospita 1240 detenuti, di cui 800 sono bianchi, è davanti ai miei occhi.
Scendo e mi guardo attorno. Dopo tre secondi un agente cammina verso di me. Si chiama Jack Nimega, è bassino, tarchiato, capelli biondi e lisci. Si tira su i Ray-ban.
“È proibito girare qui attorno.”
Chiedo il permesso di fare una telefonata, mi sembra una buona scusa per dare un’occhiata all’interno. Entro. Accanto al telefono c’è un signore, indossa una T-shirt. Sul davanti ha un disegno che rappresenta Iron Mike in azione accompagnato dalla scritta The New Tyson. Dietro, a caratteri cubitali, un’altra scritta: Mike’s Back.
“Buongiorno, sono un giornalista italiano. Lei è?”
“Muhammad Siddeeq.”
È il leader dei musulmani di Indianapolis, cinquantasette anni, professore di scienze e matematica.
“Come mai si trova qui?”
“Per vedere Mike Tyson.”
“Lo incontra spesso?”
“Ogni giorno, da quasi tre anni.”
È stato lui a convertirlo alla religione islamica.
“Senta…”
La domanda mi rimane in gola, l’agente Nimega dice che i giornalisti non possono stare nel carcere. Muhammad Siddeeq sì, io devo andare via.
Continuiamo a parlare all’aperto.

“Ho conosciuto Tyson mentre stava preparando il processo. Mike ha subito capito la forza della nostra religione. I musulmani gli saranno vicini anche quando sarà fuori dal carcere.”
Gli ricordo che il reverendo Charles Williams ha detto di non credere al fatto che Tyson sia diventato musulmano.
“È come dire che il Papa non è cattolico.”
Rieccolo.
Jack Nimega esce dalla macchina della polizia, ci raggiunge a passo lento.
“Il signor Siddeeq ha libero accesso all’intera area, lei si deve allontanare.”
Ha tutta l’aria di un ultimo avvertimento.
Giriamo l’angolo della strada, Siddeeq mi mostra un vecchio casolare.
“Avremmo voluto pregare lì tutti assieme sabato mattina. Ma il commissario ce l’ha vietato. Pregheremo qui all’aperto. Con noi ci sarà Mike e avrà accanto Ali.”
Risalgo sul taxi e riprendo la via di Indianapolis.
Il detenuto 922335 è nella sua cella. Domani mattina tornerà libero dopo tre anni di detenzione e per prima cosa si farà un bagno caldo. Poi riprenderà a vivere.
Sarà fuori alle 6 del mattino, probabilmente sotto una fitta pioggia come hanno annunciato le previsioni meteo. Troverà televisioni, giornalisti, tifosi e fedeli di ogni religione. Tutti vorranno parlargli, scambiare almeno due parole con lui.
Spero che l’agente Jack Nimega non si innervosisca.

È mattina. Sono decisamente in anticipo sull’orario dell’appuntamento.
Il freddo mi entra nelle ossa, non sento più i piedi, mi sembra che il tempo non passi mai. Sono le 4:30 e il termometro segna cinque gradi sotto lo zero. Tra mezzora la polizia chiuderà la strada d’accesso alla prigione, i giornalisti dovranno essere dentro l’area che è stata loro riservata.
Arrivo al posto di blocco e vedo ancora lui. L’agente Nimega è la personificazione di un incubo. È più nervoso dell’ultima volta.
“Professione?”
“La stessa di ieri, giornalista.”
“Non faccia lo spiritoso, le assicuro che non è proprio il caso. Mi mostri un documento che confermi quanto dice.”
Gli faccio vedere il tesserino professionale. Lo guarda, se lo gira tra le mani.
“Ma che lingua è questa? Da dove viene?”
“Dall’Italia.”
“C’è proprio tutto il mondo per quello lì.”
Mike Tyson è ancora in cella.
Alle 5 l’agente Clarence Trigg va a prenderlo. Lo trova sveglio. Una discreta colazione e la lettura di The Ring lo tengono impegnato per mezzora. L’agente lo accompagna a firmare i documenti per il rilascio. Gli viene restituita la busta dentro la quale sono stati messi gli oggetti personali al momento dell’arresto.
Un altro agente mette in un grosso sacco di plastica tutto ciò che è appartenuto al pugile nei tre anni di detenzione. Mike strappa le carte, gli appunti, gli autografi e poi li brucia. È la prassi. Al mercato dei collezionisti ogni foglio firmato da Tyson a Plainfield vale da cento dollari in su.
Il numero identificativo viene tolto dalla tuta, nei prossimi giorni il 922335 apparterrà a un altro detenuto. Tyson riceve i 711,75 dollari del salario guadagnato in 1095 giorni di pulizie nella palestra.

Prima di varcare il portone scambia qualche parola con Muhammad Siddeeq.
“Il carcere è un posto terribile. Non riabilita. È un posto in cui vivono uomini carichi di istinti bestiali, qui si farebbe qualsiasi cosa per sopravvivere. Tutto è così pazzesco. Prima di entrare in prigione ero uno che amava la gente, pensando che tutti fossero pronti a volermi bene. Oggi provo un odio diffuso per il novantanove per cento delle persone.”
Mancano pochi minuti alle 6:00 quando cinque grosse auto e una Lincoln Continental con targa dell’Ohio si fermano davanti all’ingresso del carcere.
Alla guida della limousine c’è Rory Holloway. È il migliore amico di Tyson. Accanto a lui John Horne, un passato da attore, è l’uomo che ha presentato Robin a Mike. Sul sedile di dietro Don King con i capelli più dritti del solito. Con lui c’è una bella signora. Poggia le lunghe gambe su interminabili tacchi a spillo, indossa un tailleur blu un po’ leggerino per queste temperature. Due enormi orecchini di madreperla regalano luminosità a un viso estremamente serio. Monica Teresa Turner è stata l’ultima a visitare Tyson in carcere, ha firmato la garanzia per l’uscita. Ha ventott’anni, si è laureata in medicina alla Georgetown University, si sta specializzando in pediatria. È la fidanzata ufficiale di Mike. Si sono conosciuti prima del processo.
Un tabloid di New York ha pubblicato una storia. Monica sarebbe la mamma di una bambina di cinque anni, Geena. Il suo uomo era un trafficante di droga che ora sta scontando una condanna a dieci anni di carcere.
Anche Don King esce dalla macchina ed entra nella zona d’attesa all’interno della prigione. Fuori ci sono trecento giornalisti, una cinquantina tra radio e televisioni, ma soprattutto c’è una folla di almeno mille persone.
Fa un freddo boia.
Attirato da un forte rumore alzo la testa, tre elicotteri volteggiano in cielo: oltre a quello della polizia, ci sono quelli della ABC e della NBC che trasmettono in diretta l’avvenimento.
E la CNN? Dove è la CNN?
Venti agenti vegliano sulla sicurezza della zona.
Alle 6:15 Mike Tyson fa la sua apparizione. Attraversa quasi di corsa l’atrio, saluta le guardie. In quello stesso momento si alza in volo l’elicottero della CNN. Eccoli, arrivano i nostri. Sembra di essere finiti in una scena di Apocalypse Now.
Dopo tre anni, Mike veste per la prima volta abiti civili. Un completo nero, una camicia bianca con un grosso bottone d’argento a chiudere il colletto. Sulla testa ha una papalina bianca traforata. È il primo segnale forte che la sua vita è cambiata, è l’annuncio al mondo che la nuova fede è islamica.
La barba è di pochi giorni, come la portava quando stava per affrontare un match importante. Lo sguardo è cattivo. Ha il fisico dei momenti migliori, pensa novantotto chili. Diciassette in meno di quando è entrato a Plainfield il 26 marzo del ‘92.
Un uomo del clan di Don King cerca di nasconderlo dietro un cappotto, altri due gli proteggono i fianchi. Entra velocemente in macchina e il corteo lascia l’area del carcere.
Il conducente del mio taxi dice di sapere dove stanno andando. Ha un amico che conosce il fratello di uno che opera nel posto dell’appuntamento.
“Andiamo” dico senza stare tanto a pensarci su.
La dritta è giusta.
Sono alla Moschea di Plainfield, il Centro Islamico più grande del Nord America.
C’è una lunga fila di macchine posteggiate ai lati della strada. Il prato è ancora ghiacciato, in fondo sono le prime ore del mattino. Centinaia di persone con passo veloce si avviano verso un edificio di mattoni rossi. In molti vestono abiti neri, lunghi cappotti, candide camicie. Il servizio di sicurezza è inflessibile.
Entro, mi tolgo le scarpe e mi incammino sul tappeto steso davanti all’officiante. A recitare la preghiera di ringraziamento è Muhammad Siddeeq.
C’è uno striscione sul lato destro della Moschea.
“La pace sia con te, Allah ti benedica Mike Tyson.
Inginocchiato, con la testa che va a toccare per terra, il campione è sinceramente preso dalla cerimonia. Dietro di lui Don King ripete i gesti con un po’ di difficoltà, la pancia fuori misura gli impedisce di muoversi liberamente.
Accanto a Mike c’è Muhammad Ali, due file dietro il cantante rap M.C. Hammer.
Monica Turner se ne sta in disparte, appoggiata alla parete, calza le sue scarpe con i tacchi a spillo. Lei non è musulmana.
Siddeeq finisce con il saluto al nuovo adepto Mike Tyson. Un collega americano mi dice di aver saputo che da oggi l’ex campione si chiamerà Malik Abdul Aziz, Michael Servo del Signore.
Una donna spinge un bambino verso il pugile, lui lo bacia con affetto. Un tifoso lo prega di firmare una copia di The Ring che ha la foto del campione in copertina. Mike gira la faccia dall’altra parte.
Una breve colazione con la comunità islamica, Don King sgomita per avere un posto accanto ad Ali e lo tormenta con fragorose risate.
Tyson sale sulla limousine e si avvia verso l’aeroporto di Indianapolis. Ad aspettarlo in pista c’è un Lear bireattore con dodici posti. Salgono lui e l’intero clan, Monica compresa.

L’aereo decolla alle 9:30 del mattino. Un’ora e mezzo dopo atterrano a Cleveland. Salgono su una jeep bianca e raggiungono Southington, un paesino di tremilaseicento abitanti a poche miglia da Orwell, dove Don King ha il campo da allenamento.
Il cancello della villa ha il nome Mike Tyson scolpito sul ferro brunito, un’inferriata corre lungo i sessanta acri della proprietà.
Telecamere di sicurezza, guardie private e armi.
Nessuno disturberà il riposo del campione.
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