
L’Italia del pugilato torna dai Giochi di Parigi ’24 con uno dei peggiori bilanci di sempre.
Un fallimento. Anzi, un disastro totale.
Sul piano dei risultati.
Una squadra di otto elementi (cinque donne e tre uomini), dieci incontri, otto sconfitte. Sei eliminati al primo turno. Aziz Abbes Mouhiidine e Irma Testa candidati al podio, addirittura all’oro, subito fuori.
Sul piano del rendimento.
Nessuno del gruppo, tranne Diego Lenzi e Alessia Mesiano, si è espresso sul ring al livello che gli è proprio. Tutti sotto il rendimento previsto.
Sul piano atletico.
La squadra azzurra ha mostrato, nella sua interezza, l’incapacità di reggere la condizione atletica ottimale per tre round. Quasi sempre le energie si sono esaurite dopo gli iniziali tre minuti.
Sul piano tattico.
Vista in ogni incontro un’imbarazzante incapacità di cambiare scelta in corsa, di cercare nuove soluzioni per aggiudicarsi il match, di variare atteggiamento per evitare la sconfitta.
Sul piano estetico.
Non capisco, ma questa probabilmente è una mia colpa, la necessità di boxare a mani basse, saltellando sul ring.
Sul piano politico.
Nessun arbitro italiano ai Giochi, è la seconda volta consecutiva che si ripete l’insulto. Eppure il campo giudici/arbitri è di un’imbarazzante pochezza. Nessun uomo sul campo in grado di fare quel lavoro di lobbying indispensabile per evitare soprusi. Nessuna incidenza all’interno degli organismi chiave per pretendere onestà di giudizio. Nessuno in grado di gestire nel modo giusto il caos creato dall’incontro tra Angela Carini e Imane Khelif.
Sul piano della lettura degli incontri.
La sconfitta di Aziz Abbes Mouhiidine e, in parte, quelle di Irma Testa e Salvatore Cavallaro, mi sono sembrate ingiuste. Ma bisogna riconoscere, come ho scritto subito dopo i match, che nessuno dei tre ha dato sul ring certezze assolute a cui aggrapparsi. Abbes a parte, la severità e l’incompetenza nella formulazione dei cartellini da parte dei giudici ha avuto il supporto di prestazioni decisamente sotto il livello che ci aspettavamo da Cavallaro e dalla Testa. Tutti gli sconfitti, Mesiano e Lenzi esclusi, hanno perso contro rivali di livello inferiore. Aggrapparsi alle presunte ingiustizie per mascherare il naufragio sarebbe un’ulteriore aggravante per il già disastroso consuntivo finale.
L’Italia è ormai alla terza Olimpiade fallimentare.
A Rio de Janeiro 2016 nessun componente della squadra italiana sul podio.
A Tokyo 2020 è stato toccato il fondo. Nessun atleta del settore maschile qualificato per il torneo (bronzo di Irma Testa).
A Parigi 2024 ancora tutti fuori dal podio.
Questi sono i fatti.
È chiaro che le soluzioni dovrà trovarle chi dirigerà il sistema. Dovrà rimettere la boxe al centro del villaggio.
E invece le uniche voci che sento in giro sono quelle di lotte politiche, anziani signori (addirittura più anziani di me che di anni ne ho 75) proporsi come il nuovo che arriva. Personaggi che hanno fallito nella gestione del pugilato italiano, riproporsi come il nuovo che avanza.
La boxe dilettantistica italiana è in queste condizioni perché sono anni che dovrebbe cercare di rialzare la testa, ma ha paura di incamminarsi sul sentiero del rinnovamento totale. Si è fatta la guerra a chi avrebbe potuto contribuire al rilancio, sono stati emarginati soggetti che avevano esperienza e capacità.
Il potere che viene dalla gestione politica è stato anteposto alla passione per il pugilato. Tutti in tensione, in una perenne campagna elettorale.
Non ci si è accorti che, se la boxe continuerà a percorrere le strade attuali, piano piano tutto questo potere non avrà più il terreno per essere esercitato.
Siamo all’anno zero nel pugilato olimpico.
Siamo senza un campione europeo o un campione mondiale (con quasi ottanta titoli a disposizione) tra i professionisti.
C’è bisogno di competenza, voglia di lavorare e amore per questo sport. Non si può salvare la boxe se si è innamorati solo di sé stessi.
Buona fortuna.

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