Caso Khurtsidze. Mafia, carcere, libertà. A 44 anni vuole rientrare

Avtandil Khurtsidze non ha ancora il visto per risiedere negli Stati Uniti, difficile possa fermarsi. Ha 42 anni e non combatte da cinque, improbabile, ma non escluso, che torni sul ring.

Così scrivevo il 17 settembre 2021, quando è uscito dal carcere. Oggi, il giorno del suo compleanno, Avtandil Khurtsidze ha annunciato che lo vedremo nuovamente sul ring. A 44 anni e (così afferma) con il visto in tasca, riprenderà la carriera di pugile sotto la guida dell’allenatore Gary Stark nella palestra di Brooklyn, dove ha preparato molti dei suoi incontri.Si è definito Mini Mike Tyson
(video sotto). Non combatte dal 22 aprile 2016, quando ha messo ko in cinque round Tommy Langford (18-0 all’epoca), conquistando così il titolo mondiale WBO dei medi ad interim. Questa è la sua storia.


Kuitaisi, Repubblica della Georgia, primi giorni di giugno 2017.
Avadantil si allena duramente. Fa il pugile professionista. Alto 1.68, boxa tra i pesi medi. Con un fisico così ha una sola strada da percorrere sul ring, accorciare la distanza e provare a scaricare pesanti combinazioni da vicino. A volte, quasi sempre, gli riesce. È coraggioso, tosto, pronto a tutto. 
Ha messo assieme un record non male: 33-2-2 (22 ko). La prima sconfitta contro Tony Marshall, scrivono i giornalisti americani, è stata un’autentica ingiustizia. Un colpo basso dell’avversario l’ha fulminato. L’abitro ha decretato il ko. Tra un mese disputerà il match per il titolo dei medi WBO, a Londra, contro Billy Joe Saunders.


Ha cominciato a boxare in Georgia con Doc Nowicki, un meccanico che si è inventato maestro, manager, promoter. È stato il suo coach a portarlo a Filadelfia, inesauribile serbatoio di pugili. Poi è arrivata l’organizzazione dei fratelli Vitaly e Wladimir Klitschko, la K2. E sono arrivate quindici vittorie consecutive in Ucraina.
A quel punto, Lou Di Bella l’ha voluto con lui per lanciarlo negli States.
Da tempo vive a Birghton Beach, nella parde meridionale di Brooklyn. La documentazione per il visto, che gli consentirebbe di risiedere permanentemente negli Stati Uniti, non è ancora completa.
E poi ci sono conoscenze pericolose, frequentazioni imbarazzanti con la mafia georgiana, peccati su cui il governo americano sta indagando a fondo. È proprio una richiesta del Governo USA a convincerlo a prendere l’aereo per atterrare al JFK di New York. 
Non ha alcun dubbio, solo la certezza di recuperare il visto per poi concludere l’allenamento, andare a Londra, magari prendersi il titolo e tornare da campione a Brooklyn.


Non va esattamente così.
All’aeroporto trova due agenti del Federal Bureau of Investigation (FBI). Lo arrestano. Gli contestano numerosi reati, la fonte di ogni male è la sua adesione alla Shulaya Enterprise, un’organizzazione criminale probabilmente concentrata nell’area della comunità russa a Brooklyn. 
A Khurtsidze viene proposto un patteggiamento. Se collaborerà, sarà condannato alla pena minima di tre anni. Lui rifiuta. Il giudice gli nega la libertà provvisoria per pericolo di fuga.Il processo si tiene un anno dopo. Viene accusato di due reati: associazione a delinquere e percosse ripetute a scopo di estorsione. È indicato come il principale responsabile del servizio di sicurezza dell’organizzazione, per cui avrebbe aggredito e picchiato a sangue più persone.
Il pubblico ministero è Andrew Adams, il giudice Katherine Forrest.
La giuria riconosce l’imputato colpevole di entrambe le imputazioni.
Viene condannato a 10 anni di carcere.
Gli avvocati difensori fanno ricorso, l’appiglio sono le parole usate dal giudice in alcune parti della motivazione della sentenza.
Qui si tratta di inviare un messaggio ad altri stranieri che potrebbero cercare di venire sulle coste degli Stati Uniti. Lo status di Khurtsidze come cittadino straniero sarebbe quindi utile a trasmettere ed essere allo stesso tempo veicolo per un messaggio deterrente per la comunità georgiana, sia qui che all’estero.
Il ricorso viene presentato alla Corte di Appello del secondo distretto dello Stato di New York, che si pronuncia in suo favore. 
La nazionalità del condannato ha avuto un ruolo nelle decisioni prese dal giudice.


Confermato il verdetto, dunque riconosciuta la colpevolezza rispetto ai capi di imputazione. Ridotta la sentenza a cinque anni di detenzione, nel rispetto di quanto raccomandato dalle linee guida consegnate ai giudici.La pena si ritiene già scontata.
Avtandil Khurtsidze è libero di uscire.
Resta in prigione Razhden Shulanga, il capo dell’organizzazione, condannato a 45 anni.

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