Una storia di mafia, violenza e sangue. Dentro ci sono un mito e un killer


Miami, 31 ottobre 1967.


Notte di Halloween, notte di peccati e spiriti maligni.
A Place for Steak, uno di tanti ristoranti che propongono bistecche sulla 79th Street Causeway, a North Bay Village, sulla strada che fiancheggia l’Oceano.
Un uomo siede su uno scomodo sgabello, alto e piccolo, davanti al bancone dell’Harbour Lounge. Il bar, aperto fino a tardi, è subito dopo la porta di ingresso del ristorante. L’uomo è grande e grosso, supera l’1.90 di altezza e da qualche tempo sfiora i 100 chili di peso. Un Omone. Ha un bicchiere di whiskey in mano, guarda fuori dalla grande finestra dietro il bancone. La gente mangia, beve, chiacchiera. Lui continua a fissare oltre quel vetro.
I suoi occhi improvvisamente si accendono, il volto si riempie di una strana luce. È un’immagine malvagia. Un lampo attraversa lo sguardo, poi lentamente si spegne e lascia che l’oscurità is prenda ogni cosa. L’Omone ha meno di quarant’anni, è in forma. È stato un atleta, il fisico è tonico, testimonia che non ha perso l’abitudine all’allenamento.
Un Uomo entra nel ristorante. Ha cinquant’anni, veste un abito di sartoria, una cravatta pacchiana ne rovina l’eleganza. Il caposala lo saluta con rispetto, i camerieri gli corrono incontro. È popolare da queste parti. O regala buone mance, o è un tipo a cui bisogna portare rispetto.
L’Uomo si siede a un tavolo lungo la parete che disegna il lato più grande del salone, da lì si gode una splendida vista sull’Oceano. Arriva il cameriere.
“Cosa le piacerebbe mangiare stasera, signore?” chiede.
“Una New York Sirloin steak” recita l’Uomo.
“Cottura?” chiede il cameriere.
“Media al sangue” sentenzia l’Uomo.
“Gradisce bere qualcosa?”
“Mi porti una bottiglia di Barolo Gaia del ’60, quello che il titolare fa venire dall’Italia”.
“Certo signore, lo stappo prima di dare l’ordine in cucina per la bistecca”.
Carne di prima scelta, vino di ottima qualità.
Non riesce a mangiarne neppure un boccone di quella bistecca, non può bere neanche un goccio di quel vino. Appena il cameriere lascia il tavolo, l’Omone scende agile dallo sgabello, taglia con lunghi passi la sala, arriva davanti al tavolo del nuovo entrato. Non muove un muscolo del viso, non dice una parola.
Tira fuori dalla giacca la pistola.
BANG
BANG
BANG
BANG
BANG
Cinque colpi in rapida sequenza.
L’Uomo crolla sul pavimento, il sangue copre la sua faccia e scende a macchiare di rosso giacca e camicia. Il busto si piega in avanti, la testa si schiaccia sul piatto ancora vuoto poggiato con cura sul tavolo tondo. Il bianco della tovaglia e del tovagliolo ha macchie di sangue ovunque.
Qualcuno chiama la polizia. Una pattuglia è sul posto in pochi minuti. L’Omone viene fermato.
Arrivano scientifica e medico legale, il dottore mentre esamina il cadavere si lascia sfuggire un macabro commento.
“Che bel buco che è…”.
Sulla fronte dell’Uomo c’è il foro provocato dal primo dei cinque colpi sparati dal killer.
Appena pochi giorni prima, l’Uomo aveva minacciato l’Omone di morte alla fine di una violenta lite.
La vittima si chiama Thomas Altamura, detto The Enforcer, il garante. Aveva 53 anni e faceva parte del clan Gambino, uno dei cinque gruppi che gestisce la mafia a New York e nel resto degli States.
La polizia accusa dell’assassinio Anthony Esperti, detto Big Tony (foto).
Ha 37 anni e il locale in cui è stato commesso l’omicidio è il suo.
Gli agenti lo portano in carcere. Detta così potrebbe sembrare una manovra di routine, ma l’arresto è tutt’altro che semplice. Big Tony lancia per aria i poliziotti come se fossero bambole di pezza (He trew the police around like rag dolls, scriveranno i giornali americani ).
Il processo non ha storia.
“Signori giurati, avete raggiunto un verdetto?” chiede il giudice.
“Sì vostro onore” risponde il portavoce della giuria.
“Per il primo capo di imputazione: omicidio di primo grado, lo ritenete colpevole o innocente?”.
“Colpevole, vostro onore”.
Viene condannato all’ergastolo. Fine pena, mai.
Stavolta non è riuscito ad evitare il processo. Era già stato arrestato in altre undici occasioni per vari reati, ma le vittime si erano tutte rifiutate di testimoniare contro di lui.
Anthony Esperti, l’Omone, muore il 12 aprile del 2002.
Aveva 72 anni. Era nato a Baltimora, aveva vissuto nel Bronx.
Da giovane era stato pugile, aveva fatto da sparring a Sonny Liston.
Il 17 gennaio del 1961, più di sessantuno anni fa, era salito sul ring dell’Auditorium di Miami Beach per affrontare una giovane promessa, uno che aveva vinto la medaglia d’oro a Roma pochi mesi prima. Lui, l’Omone, non combatteva da cinque anni. L’ultimo match l’aveva disputato il 21 marzo del ’55, perdendo ai punti contro Al Andersen. Aveva quasi sempre boxato a Brooklyn, a volte nel Bronx, raramente a Long Beach.
Il rivale di Miami era al terzo incontro da professionista, aveva vinto i primi due. Proprio quel giorno festeggiava il diciannovesimo compleanno. Dopo meno di tre round, l’arbitro Mike Kaplan interrompeva il combattimento e decretava la sconfitta di Big Tony per kot. L’occhio sinistro era devastato dai jab dell’avversario.
Quella per Big Tony era la sesta sconfitta in carriera, la quarta consecutiva.
L’altro, sul ring, avrebbe avuto una storia decisamente diversa. Sarebbe diventato il personaggio sportivo più popolare del mondo, uno dei più grandi pesi massimi di sempre. Il suo nome era Cassius Clay, ma presto tutti lo avrebbero conosciuto come Muhammad Ali.

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