Alcuni momenti della nostra vita ci restano per sempre nella mente e nel cuore. È ormai passato quasi mezzo secolo da quando mi sono messo in viaggio, ho attraversato il mondo del pugilato, visto alcune centinaia di titoli mondiali , parlato con i più grandi campioni. Ne cito quattro per tutti: Ali, Foreman, Moore, Hearns. Ci sono avventure che non mi stancherò mai di raccontare…
Lui l’ho incontrato a Miami in un’afosa giornata di fine ottobre, non ricordo con certezza l’anno, credo fosse il 1982. Avevo il suo indirizzo scritto in stampatello su un foglietto a quadretti custodito nella tasca posteriore dei jeans.
Roberto Duran
MIAMI BEACH CLUB 601.
Era sulla 39 North West, appena fuori città.
In macchina con me c’erano Mario Bruno di Tuttosport, Franco Esposito del Mattino e l’inseparabile Teo Betti del Messaggero. L’appuntamento per il nostro incontro era fissato alle 12, davanti a un cancello bianco.
L’indirizzo l’aveva dato Luis De Cubas a Mario Bruno, che era padrone della lingua spagnola assai più di noi avendo vissuto a lungo in Messico. Avevamo conosciuto il manager cubano-americano qualche tempo prima a Napoli in occasione del mondiale Oliva vs Brunette.
-Luis, puoi metterci in contatto con Roberto Duran?
«Posso provarci, anche se lui non ama i giornalisti.»
Era andata bene, molto meglio del previsto. Benissimo, avevamo il contatto.
Alla guida di una Chevrolet rossa avevamo imboccato una strada larga che costeggiava un condominio dipinto di celeste e totalmente immerso nel verde. All’uscita dell’ultima curva avevamo visto il lago e sulla sinistra il cancello bianco. Eravamo in anticipo di una decina di minuti. Dentro quel condominio c’era una leggenda. L’uomo che aveva sconfitto anche Sugar Ray Leonard.
Alle 12 in punto era apparso Giovanni: un signore dalla pelle olivastra, una barbetta appena accennata, magro da far paura. Ci aveva aperto il cancello e si era incamminato verso la macchina.
Luis De Cubas ci aveva fornito la frase magica per essere ammessi nella casa.
-Chi siete?
«Siamo fratelli di Luis».
-Seguite quel corridoio, quando arrivate in fondo girate a sinistra. Lì troverete qualcuno che vi sta aspettando.
Il secondo guardiano si chiamava Carlos. Indossava un abito elegante ed aveva modi meno bruschi del suo amico.
-Chi siete?
«Siamo fratelli di Luis.»
Avevamo sceso una rampa di scale, preso un ascensore, eravamo saliti al secondo piano per poi entrare in una stanza. A quel punto Carlos aveva fatto una telefonata.
«Sono arrivati i fratelli di Luis.»
In poche ore eravamo diventati parenti di fatto.
Un altro ascensore, un altro piano. Davanti all’appartamento numero 32 avevamo trovato due guardie del corpo. Evidentemente Duran temeva che qualcuno volesse fargli del male.
-Chi siete?
«Siamo fratelli di Luis.»
-Entrate, fate piano, Roberto dorme.
Finalmente eravamo nella tanta del campione.
Un grande salone e una camera da letto, una piccola cucina, un disordine totale. Un televisore trasmetteva un programma in cui un improbabile cuoco raccontava ricette poco invitanti.
Una signora decisamente in carne trafficava tra pentole e fornelli.
Una bambina, una delle cinque figlie di Roberto, giocava con un videogame.
Il pavimento era ricoperto di scarpe da tennis buttate ovunque, alla rinfusa. Sul divano quattro pantaloni sporchi, tre camicie, un paio di magliette. Il tavolino del salone era invaso da medicinali per dimagrire. Erano l’antidoto all’incubo di “mani di pietra”: il peso.
Carlos era entrato in camera da letto e ne era uscito qualche minuto dopo, seguito dal Mito.
Roberto Duran indossava un paio di pantaloni strappati all’altezza delle cosce, sopra aveva la blusa di una vecchia tuta. Barba lunga di qualche giorno, capelli spettinati, zigomi lucidi a testimonianza delle mille battaglie sul ring.
«Facciamo in fretta.»
Tre parole a conferma di quanto amasse i giornalisti. Aveva fatto un’eccezione solo perché glielo aveva chiesto un uomo a cui doveva molto.
Alla fine avremmo parlato per più di un’ora.
Roberto si era raccontato senza alcun problema.
Mentre rispondeva alle nostre domande si era toccato i piedi e aveva pulito le unghie con le mani.
La sua vita non era mai stata facile.
Era venuto al mondo nella Casa de Piedra, il condominio dove abitavano nonna Ceferina Garcia e nonno Jose “Chavelo” Samaniego.
Pochi istanti prima che nascesse era accaduto il fattaccio.
“Chavelo” se ne era andato al bar per bere ma soprattutto per amoreggiare con una giovane ragazza, incurante del fatto che la figliola minore Clara stesse per dare alla luce il quarto bambino. Ceferina non si era persa d’animo, aveva raggiunto il marito e lo aveva steso sul pavimento con un gancio destro veloce e potente.
Poi l’aveva riportato a casa.
C’era bisogno dell’aiuto di tutti.
Una casa di pietra e un gancio destro.
Ancor prima che Roberto nascesse, il segnale era già stato lanciato.
Per pochi spiccioli, da bambino, aveva ballato per i turisti del porto. Aveva lucidato le scarpe dei signori nei quartieri residenziali, aveva venduto i giornali per strada, aveva lavato i piatti nei ristoranti, aveva cantato e suonato nei night club.
Era cresciuto in fretta, accompagnato da una rabbia sempre più grande. Poi, era arrivata la boxe. Sul ring aveva portato tutto quello che aveva imparato per strada.
Il confine tra aggressività e follia era molto labile.
I successi erano stati accompagnati dai soldi, chi lo conosceva bene parlava di 50 milioni di dollari. Ma erano finiti tutti, assai più velocemente di come erano arrivati.
Senza più un centesimo in tasca, si era visto rifiutare dalla Federazione un vitalizio mensile di 300 dollari. Aveva chiesto il perché. Gli avevano risposto che “non aveva i requisiti culturali e sociali richiesti”. Era vero. Tutto in “mani di pietra” parlava di potenza, distruzione. L’unica cultura che conosceva era quella della violenza.
-Roberto, hanno definito la tua boxe furiosa, selvaggia. Sei d’accordo?
«Essere colpito mi motiva. Mi conferma che devo punire l’avversario sempre di più. Un pugile è un uomo che quando prende un pugno ne restituisce tre.»
-Chi è stato il più forte del mondo?
«C’è una sola leggende nella boxe, sono io.»
-Cosa definisce un campione?
«Uno no es lo que dice sino lo que dimostra ser.» (Un uomo non è quello che dice sino a quando non dimostra di esserlo).
-Sei diventato professionista giovanissimo, a 15 anni. Perché?
«Da noi non c’erano tante possibilità. Vedevi i tuoi amici morire per strada, uccisi da una coltellata. L’unica cosa che potevi fare era augurarti che non capitasse anche a te. La boxe era una soluzione per evitare guai.»
-Cosa c’è di vero nella storia del no mas?
«Sono accadute troppe cose strane quella notte a New Orleans, un giorno racconterò la verità sul mio abbandono. È stata comunque una notte umiliante. Mi deve una rivincita.»
Sotto, il video del primo incontro. Quello in cui, il 20 giugno del 1980 a Montreal, Duran ha sconfitto Leonard ai punti in 15 riprese.
Qualche mese dopo il nostro incontro, Patrizio Sumbu Kalambay avrebbe affrontato Mike McCallum per il mondiale WBA dei pesi medi. I pronostici erano tutti contro il nostro campione.
-Roberto tu che ne pensi?
«Vincerà il vostro pugile. Ha testa, classe e coraggio per batterlo.»
I soldi guadagnati sul ring li aveva sperperati. Casinò, auto di lusso, ma soprattutto tasse non pagate. Ce l’aveva confessato in quella visita a Miami, tra un unghia pulita con lo stesso dito che poi sarebbe finito in bocca e un’ispezione meticolosa all’interno del naso.
«Don King e Bob Arum non hanno mai pagato le tasse sui miei combattimenti. Ho un debito con il Fisco di oltre sei milioni di dollari. Non posso neppure investire I miei soldi. Se apro un bar o un ristorante, tutto quello che incasso finisce nelle tasche del Ministero delle Finanze.»
Aveva rischiato di essere cacciato dalla casa panamense. Era stato salvato dal Governo che aveva cancellato i 300.000 dollari di ipoteca e aveva poi dichiarato l’appartamento “monumento di interesse nazionale”.
Ma il problema principale non era stato risolto.
Era senza un cent.
Dicevano che per racimolare qualche dollaro fosse andato a suonare le congas in un locale buio e triste del Queens, New York. Che si fosse messo a vendere hot dog e bibite alla fiera del carnevale panamense, che avesse ceduto per pochi dollari cimeli e autografi.
Non so quanto ci fosse di vero o se tutto appartenesse invece alla leggenda del pugile maledetto che Duran si era cucito addosso.
Quando aveva battuto Sugar Ray Leonard la prima volta a Montreal si era tirato giù i pantaloncini ed aveva mostrato il sedere nudo ai reporter in prima fila.
«Adesso baciatemi il culo!»
A forza di comportarsi da selvaggio era stato abbandonato da tutti.
Erano sparite anche le quattro cinture di campione del mondo. Le aveva prese il fratello di una delle sue ex mogli. Le aveva rubate e portate via di nascosto, per poi rivenderle a un ricettatore per dodicimila dollari.
Dicevano di averlo visto, sovrappeso, sguardo cattivo e volto gonfio, imbonire gli avventori di una fiera.
«Comprate una birra e un panino a questa bancarella e avrete la foto autografata del grande Roberto Duran.»
Il re del mondo era sceso definitivamente dal trono.
Aveva battuto Leonard, Buchanan, De Jesus, Barkley. Era stato il più forte peso leggero della storia. Aveva dominato l’universo della boxe. Anche quando era stato guidato da un supplente di una scuola cattolica della Pennsylvania come Mike Acri, da un tassista di Brooklyn come Carlos Hibbart o da un profugo cubano come Luis de Cubas.
Avrebbe combattuto fino a 50 anni. A fermarlo non sarebbero stati nè l’età, nè i colpi dei rivali.
Il 5 di ottobre del 2001 una Rover guidata dal signor Jimenez era andata a scontrarsi con una Fiat Palio. Dopo tre testa coda, aveva finito la folle corsa contro il guard rail dell’autostrada “9 de Julio”, una delle arterie principali di Buenos Aires.
Uno dei quattro passeggeri era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Argerich. Aveva subito la frattura di sei costole e la perforazione del polmone sinistro. Era stato immediatamente operato.
Quel signore era Roberto Duran, sopravvissuto anche a quell’ultimo colpo.
Tre mesi dopo aveva finalmente annunciato il ritiro.
Sì, bellissimo. Se non ricordo male era nel libro ‘Quei favolosi anni ’80’.