E’ UN POMERIGGIO estivo, ma piove e le nuvole hanno oscurato il cielo.
Due colpi sul legno della porta della stanza d’albergo.
Brad sta mangiando una bistecca portata su dal room service, la taglia a piccoli pezzi e mastica molto prima di mandarli giù. Sembra che quella carne abbia perso ogni sapore. Stasera deve combattere. Ha un record di 52 match. Ne ha vinti solo sette, ma non ha perso la speranza. Prima o poi, arriverà il grande momento.
Un altro colpo.
L’avversario sarà un tipo tosto, uno che l’ha già riempito di botte appena tre settimane fa a Salt Lake City. Brad è uno di quei pugili che negli States chiamano journeyman, ma anche tomato can. Una scatola di pomodori pronta a spruzzare rosso sangue ad ogni match. Ha perso gli ultimi ventisette incontri. A inizio 2001 la Commissione Atletica del Nevada gli ha revocato la licenza. Ma lui non poteva fare a meno della boxe perché dice di amarla. E così è salito sul ring per qualche centinaio di dollari e si è fatto picchiare senza risparmiarsi la minima punizione. Ma, non contento, ha messo il suo faccione e la pancia prominente a disposizione di campioni famosi. Ha fatto lo sparring di Mike Tyson, Lennox Lewis, dei fratelli Vitali e wladimir Klitchko. Altri pugni sono andati ad agiungersi a pugni già collezionati in carriera. Lo prendono perché è un tipo tosto, uno che va avanti anche se continuano a centrarlo con jab, diretti, ganci e montanti.
California, Idaho, Utah, Colorado e Texas hanno fatto finta di niente e lui ha combattuto in match ufficiali, seguendo sempre lo stesso percorso. Quello delle sconfitte (nella foto sotto Rone, a sinistra, contro Willie Chapman nel 2001).
Bussano ancora alla porta.
Brad si alza lentamente dalla sedia e va ad aprire. E’ Roy, l’allenatore. L’unico amico che gli sia rimasto. L’unico che continui a chiamarlo Top Cat, gattone.
“Brad, Thelma è morta nella sua casa, a Cincinnati. Stasera non combatti.”
Roy non è neppure entrato, si è tolto subito quel peso che da quasi un’ora gli sta facendo piegare le spalle e riempie di dolori lo stomaco.
Mentre parla, fermo sull’uscio della stanza, sta ancora scrollando l’acqua dall’ombrello. Thelma era la mamma di Brad. Tre lavori, nessun uomo accanto, dieci figli da sfamare. La causa della morte, aveva detto il medico legale chiamato di corsa da una vicina che era andata a trovarla, era stata infarto. Da mesi il cuore non funzionava, ma lei non aveva il tempo per riposarsi.
Brad non chiude la porta, torna a sedersi. Manda giù gli ultimi bocconi di carne. Poi ripulisce il piatto con un pezzetto di pane. Beve dalla bottiglia di minerale. Solo quando non trova più nulla che lo aiuti ad allontare il ricordo della mamma alza finalmente lo sguardo verso il maestro. Roy è rimasto in piedi, in silenzio, al centro della stanza.
“Non se ne parla. Stasera combatto. Senza gli 800 dollari della borsa, non saprei come pagare i funerali.”
Sale in macchina e guida nervosamente sotto la pioggia di Cedar City, nello Utah. Passa attraverso vie piatte e deserte, file di palazzi tutti uguali accompagnano il lento incedere della vecchia Chevrolet grigia. Fosse per lui guiderebbe sino al deserto del Mojave, in fondo sono appena trenta chilometri. Una volta lì potrebbe sempre perdersi e non dovere mai più fare i conti con una vita che non ha avuto altri colori che il nero della tragedia. Ma ha un dovere da compiere e si ferma davanti all’ingresso principale della Cedar Raceway dove è in cartellone la sfida.
Entra nello spogliatoio, una stanza umida e fredda, e si veste meccanicamente. Mentre indossa i pantaloncini e stringe i lacci delle scarpe, gli occhi si posano su un piccolo manifesto appeso al muro.
“RING DEVASTATION” dice la scritta in rosso, così gli organizzatori hanno deciso di promuovere la riunione.
La città è piena di minatori in cerca di uno spettacolo violento in cui affogare le tensioni del lavoro.
Brad fa meccanicamente un po’ di vuoto, colpi sparati all’aria senza una logica precisa, poi si mette una vestaglia logora che non ha mai conosciuto giorni migliori e si incammina verso il ring. E’ solo. Lo era anche prima, quando ha dovuto chiedere a un pugile che aveva appena combattuto di fargli il bendaggio. Roy è impegnato con un altro dei ragazzi. Deve aver pensato che è meglio soffrire all’angolo che stare nello spogliatoio davanti all’angoscia di un uomo che è anche suo amico.
A Brad sembra di essere entrato in un tunnel buio, rivede il film della vita. Nella testa continuano a ronzargli le parole di Helen Ruffin, la donna di cui pensa di essere innamorato.
“Non farlo, non combattere. Hai troppi altri pensieri per la testa. Non combattere, Brad. Rinuncia a questo match.”
E’ sovrappreso, la bilancia ha segnato 118 chili. Decisamente troppi per uno che non arriva a 1.80. Un massimo più largo che alto. Troppi alcolici e pochi allenamenti non portano lontano.
Non sente le urla, nè gli incitamenti che arrivano dall’angolo, non sente più neppure i pugni di quel rivale, che ha dentro una rabbia che lui non riesce a capire. Quei pugni gli stanno devastando il volto, ma non c’è dolore nella mente di Brad. E’ un lusso che non si può permettere.
A cinque secondi dalla fine del primo round, cala il buio totale. Lo giustizia un gancio destro sbucato fuori dal nulla. Almeno per Brad che ha l’arcata sopraccigliare sinistra spaccata. La ferita butta tanto sangue e copre l’occhio, impedendogli di vedere i colpi che arrivano da quella parte. Ancora un destro. Fine del massacro.
Il pugile vittorioso alza le braccia al cielo, ha trovato un knock out da aggiungere al record.
Brad rimane steso al tappeto, immobile.
Avrebbe compiuto 35 anni tra una settimana.
“Infarto”, dirà il dottor Randy Delcore.
Ko per sempre.
Due giorni dopo, gli ottocento dollari che Brad ha guadagnato per quell’ultimo match, servono alla sorella Cecilia per pagare i funerali. Il corteo funebre che entra nel Landmark Cemetry di Springfield in Ohio è formato solo da quattro persone. Madre e figlio vengono seppelliti in un’unica tomba. Costa meno.
Il nome per intero era Bradley Anthony Rone. E’ morto il 18 luglio del 2003 sul ring di Cedar City nello Utah. Giù per sempre, nel match contro il tentunenne Billy Zumbrun.
Questa era la sua storia.
Storia triste raccontata in modo straordinario. Non ha bisogno dei miei complimenti ma glieli faccio lo stesso. Con stima, Alessandro
i complimenti fanno sempre piacere, la ringrazio. dario
Rinnovo i miei complimenti per i suoi articoli.Questo mette i brividi. Respect!
Martino Palmisano
grazie
Stupendo articolo, pieno di profonda tristezza e rispetto per chi sale sul ring da vittima sacrificale. Negli anni in cui ho fatto foto da bordo ring di atleti così, purtroppo, ne ho visti tanti. Non a livelli così tragici perchè in Italia i controlli sono superiori, ma l’essenza è la stessa. Ricordo quando al termine di una riunione in un paesino, l’organizzatore mi chiese di riportare il peso massimo che aveva appena perso, ingiustamente, alla stazione. Quest’omone, che parlava un discreto inglese, nonostante fosse francese, aveva fretta perchè la mattina dopo lo aspettava il lavoro in cantiere…e in quel momento era la mezzanotte passata da un pezzo. Io che avevo solo scattato foto, non mi reggevo letteralmente in piedi dal sonno e dinnanzi all’esempio di quest’uomo, che aveva combattuto con onore e rabbia e che era stato defraudato dal verdetto senza fare una piega, mi sentii un verme. Mi piacerebbe leggere una sua intervista ad un qualsiasi di questi atleti che vagano per l’Europa su ring sconosciuti, pagati 400-500 euro, per prender botte da atleti in rampa di lancio e che, devon affrontare vite che, per un uomo dalla vita”normale” sarebbero anche solo impensabili. Comunque grazie di tutto. Ogni suo articolo è una gioia per il cuore di chi legge.
prima o poi l’accontenterò, il tema mi interessa. non appena si presenterà l’occasione intervisterò uno dei tanti uomini che girano il mondo senza speranza, riempiendo i record di potenziali campioni e non chiedono altro che un po’di rispetto per il loro ruolo. per ora, grazie per le belle parole.